DAFDAF ESTATE – La lingua colora il mondo

Noi di DafDaf abbiamo sempre amato affrontare anche gli argomenti più difficili con un sorriso, e gli “esperimenti giocosi” che abbiamo pubblicato per alcuni anni ne sono stati un esempio.

La scienza non deve fare paura e grazie a un trio d’eccezione, composto da Daniela Ovadia, Marco Delmastro e Michele Luzzatto, le pagine del giornale ebraico dei bambini hanno ospitato un po’ di tutto, dalla fisica all’astronomia, dalla chimica alla… linguistica!

Nel numero 35, infatti, uscito nell’agosto del 2013, Michele Luzzatto aveva dedicato due pagine agli argomenti trattati in un libro di Guy Deutscher, intitolato La lingua colora il mondo. 

Chi parla una lingua diversa pensa anche in maniera diversa? Cioè, detto in un altro modo: i tedeschi vedono il mondo in tedesco, gli italiani in italiano e gli israeliani in ebraico?

Buona lettura!

a.t.

 

La scienza d’estate con Michele Luzzatto

Chi parla una lingua diversa pensa anche in maniera diversa? Cioè, detto in un altro modo: i tedeschi vedono il mondo in tedesco, gli italiani in italiano e gli israeliani in ebraico? A prima vista questa idea sembra assurda, anche se è vero che le parole usate nelle diverse lingue sono davvero differenti. Noi diciamo «acqua», che è un sostantivo femminile, ma i tedeschi dicono «Wasser», che invece è neutro (sì, in tedesco c’è anche il neutro) e in ebraico si dice «màim» che è addirittura plurale. Anzi, per la verità sarebbe «duale», come tutte le cose che finiscono in «-àim», che indicano non «tante cose», come i plurali normali, ma solo «due cose», un concetto che in italiano neppure abbiamo. Allora quando un israeliano parla «delle màim» ha in mente una specie di acqua doppia? Ma in che senso?

Le persone che studiano le lingue si fanno queste domande da moltissimo tempo, ma finora nessuno ha trovato una risposta definitiva. Il tema però è affascinante, anche perché per capirci qualcosa in questo campo bisogna avere una cultura straordinaria. È necessario conoscere molte lingue, ma proprio tante, altrimenti non siamo in grado di fare paragoni. Però bisogna anche conoscere come funziona il cervello, e pure sapere la letteratura non guasta, perché le lingue mutano nel tempo e serve sapere, per ogni parola, la forma primitiva e i cambiamenti che ha subìto col passare dei secoli. Infine non si può non conoscere la storia, perché i popoli si spostano, portandosi dietro le loro lingue, che poi si mescolano con le altre.

Insomma, serve studiare, studiare e studiare, come ha fatto un signore che si chiama Guy Deutscher, che ha scritto un bellissimo libro su questo tema. Deutscher è nato a Tel Aviv, vive a Londra ed è stato per molti anni in Olanda; quindi sa almeno tre lingue. Ma quando gli ho scritto per fargli vedere la traduzione italiana del suo libro, lui si è messo lì e me l’ha corretta, parola per parola. «Ah, sai anche l’italiano!», gli ho scritto. «No», mi ha risposto, «però se mi impegno lo capisco». A chi di mestiere studia le lingue succedono queste cose.

L’idea di Deutscher è che il mondo che vediamo coi nostri occhi non è semplicemente «là fuori» così come ci appare, ma viene in realtà rielaborato dal nostro cervello. E siccome il nostro cervello mette delle «etichette» alle cose per farcele riconoscere, può darsi che «etichette» diverse dicano al cervello cose lievemente diverse, col risutato che noi vediamo il mondo come guardandolo attraverso una lente. Chi porta gli occhiali lo sa: il mondo è molto diverso se lo si guarda con o senza le lenti. Ecco, con la lingua sarebbe più o meno lo stesso: le etichette sarebbero le parole, che filtrano come una lente il mondo in maniera diversa, a seconda della lingua che usiamo. Non dobbiamo immaginarci differenze enormi, perché siamo tutti esseri umani della stessa specie, ma in certi casi le differenze ci sono, eccome! Un tavolo è sempre un tavolo, che lo si chiami shulchan (in ebraico), table (in inglese) o Tisch (in tedesco), ma con certe parole le cose si fanno più complicate. 

Ad esempio è curioso quello che è successo in Giappone. In giapponese l’antica parola ao significa sia blu che verde. Quando hanno fatto i primi semafori, la luce verde è stata ovviamente indicata con questa parola, che era l’unica che avevano a disposizione. Poi, col passare del tempo, i giapponesi hanno inventato una parola nuova, midori, che significa proprio verde (e non blu), ma i semafori verdi hanno continuato a chiamarsi ao. Così le autorità, invece che cambiare nome ai semafori, ne hanno cambiato il colore, e oggi in Giappone la luce verde dei semafori ha una curiosa tonalità azzurrina. Insomma, la lingua colora il mondo! (che poi è il titolo del libro di Deutscher).

Il bello è che l’idea che le diverse lingue descrivono mondi un po’ differenti è così antica che c’è già nel Talmud. «Sono quattro le lingue che conviene usare nel mondo», è scritto, «e sono queste: il greco per il canto, il latino per la guerra, l’aramaico per la preghiera e l’ebraico per discutere». Oggi forse useremmo esempi differenti, ma l’idea resta quella: le parole che usiamo sono le nostre lenti verso il mondo.