FESTA DEL LIBRO EBRAICO DI FERRARA – Covacich, Kafka e «il bello della letteratura scomoda»
«Mi sembrava giusto creare questa specie di resa dei conti con il mio modello di scrittore, soprattutto con il mio modello etico di scrittura», spiega a Pagine Ebraiche Mauro Covacich. Per questo, su invito del suo editore, nell’anno del centenario dalla morte di Franz Kafka, ha scelto di confrontarsi in modo originale con le sue opere. Il suo lavoro non vuole essere un saggio esaustivo, sottolinea lo scrittore triestino. «Non sono un germanista e non voglio improvvisarmi tale. Quello che provo a spiegare è l’effetto su di me della lettura di Kafka». E in apertura del suo libro (Kafka, La nave di Teseo) c’è la sintesi di questo effetto. A spiegarlo sono le stesse parole dell’autore praghese (all’epoca adolescente) in una lettera all’amico Oscar: «Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?». «Ecco questo è il bello della letteratura», spiega Covacich, tra i protagonisti della prossima Festa del Libro ebraico di Ferrara. «Il bello di Kafka: ti porta in posti dove non vorresti andare. È una scrittura scomoda e coraggiosa. Ti sveglia».
Ebraicità ed ebreità
Se per scrivere serve coraggio, allora bisogna prendersi qualche rischio. «Io ne ho presi diversi nel libro. Uno è legato all’ebraicità di Kafka. Io la chiamo ebreità del vivente. Kafka è spesso associato al concetto di colpa, e leggendo opere come Il processo o Il castello, ho avuto la sensazione che la colpa non fosse solo legata al peccato, come accade per i cristiani, ma fosse intrinseca all’essere vivente stesso. Mi sembra che Kafka veda la colpa come una stigmate ontologica. In questo senso, ho collegato la sua visione a una condizione universale di sofferenza, io l’ho definita di “ebreità del vivente”. Mi sono ispirato anche alla poesia di Umberto Saba – “In una capra dal viso semita / sentiva querelarsi ogni altro male / ogni altra vita” – dove la capra diventa simbolo di un dolore universale, quasi leopardiano, che trascende l’individuo». Sarà questo, spiega, uno dei temi del suo intervento alla Festa organizzata dal Meis.
Alla domanda su quanto la visione del mondo di Kafka sia legata alla sua identità ebraica, lo scrittore sottolinea: «Kafka era agnostico e, come lui stesso affermava, non si sentiva parte di alcuna comunità, neppure di se stesso. Anche se verso la fine della sua vita ha mostrato interesse per il chassidismo, non posso dire con certezza che la sua visione del mondo derivi interamente dalla sua ebraicità. Piuttosto, è forse un tratto più universale del suo sguardo sull’esistenza».
Raccontare la non appartenenza
A un secolo dalla scomparsa è quasi inevitabile chiedersi se Kafka abbia ancora qualcosa da dire ai lettori del presente. «Kafka è attuale per molte ragioni», spiega Covacich. «Una di queste è la sua capacità di parlare di non appartenenza, del non sentirsi parte di una lingua o di una comunità. Questi temi risuonano nei giovani di oggi, che spesso sperimentano sentimenti simili. Un articolo del New York Times spiegava come molti giovani si riconoscano nel personaggio di Gregor Samsa (protagonista de La metamorfosi), nella fatica di alzarsi dal letto, di dare un senso alla propria giornata, di riconoscersi nel proprio corpo o nell’orientamento sessuale».
Altro motivo di possibile attrattiva per le nuove generazioni è la radicalità di Kafka. «La sua scrittura senza sfumature, in bianco e nero, così estrema, senza compromessi, è qualcosa secondo me che si avvicina molto a sentire di un tardo adolescente».
Contro l’ipnosi dell’intrattenimento moderno
Per Covacich poi l’autore praghese funziona come un antidoto all’intrattenimento moderno. «Dalle piattaforme di streaming ai libri, c’è un enorme industria che ci spinge a consumare passivamente contenuti. David Foster Wallace l’aveva già individuato profeticamente nel ’96 scrivendo Infinite Jest: la società resta ipnotizzata da questo intrattenimento infinito». I libri di Kafka sono agli antipodi di questo meccanismo. «La sua scrittura non ti permette di stare comodo; ti costringe a confrontarti con l’ignoto e con trame irrisolte. Non c’è mai una risposta chiara o definitiva nelle sue opere, e questo, per me, è una risorsa preziosa». Un «toccasana», lo definisce Covacich, perché regala ancora al lettore la possibilità «di fare conti con il mistero con l’enigma. Non sappiamo per quale cavolo di ragione questo povero K. (Il castello) non ha diritto a fare l’agrimensore visto che ha tutte le carte in regola. Non sappiamo perché Josef K. (Il processo) non può difendersi in un processo in cui non sa nemmeno di cosa è accusato e dove si terrà».
Oltre il Novecento
Tema di questa edizione della Festa del Libro ebraico è il Novecento e Kafka «ne è sicuramente un figlio. Ma la sua scrittura ha una qualità atemporale. I suoi racconti sono sospesi, quasi privi di riferimenti storici o sociali concreti, il che li rende leggibili in qualsiasi epoca. A differenza di Joyce, che è profondamente legato alla Dublino del suo tempo, Kafka crea mondi che non possono essere facilmente collocati in un periodo specifico. Questo fa sì che la sua opera abbia una qualità perenne, e credo che si potrà leggere con lo stesso interesse anche tra due secoli».
Daniel Reichel