LA RIFLESSIONE – Rav Alberto Somekh: Promozione per concorso

A Roma e in altre Comunità vige l’usanza che il chazan, prima di cominciare la recitazione di qualsiasi Tefillah, si rivolge ai presenti per chiedere conferma del proprio incarico dicendo: bi-rshutkhem (“con il vostro permesso”) ed essi gli rispondono: Shamayim (“Cielo!”), come dire: non è la nostra autorizzazione quella che conta, bensì l’investitura che ricevi dal Padreterno. Un’altra interpretazione attribuisce a quest’ultima espressione un significato assai più profondo. Le quattro consonanti della parola shamayim non sono che le iniziali di altrettante parole ebraiche a formare una frase: shomea’ mashmia’ yachad mekhawwenim (“chi ascolta e chi permette di ascoltare fanno intenzione assieme”). Si ribadisce in sostanza che il rapporto fra ufficiante (“chi permette di ascoltare” recitando la preghiera a voce alta) e il pubblico (“chi ascolta” la recitazione) si realizza nel momento in cui ciascuno dei due esercita la propria kawwanah nei confronti dell’altro. E’ un’applicazione del ben noto principio per cui “tutto Israel sono garanti l’uno per l’altro”: la relazione fra D. e l’uomo si trasfonde nell’armonia fra esseri umani!
Nel Talmud si specifica che quando si ascolta il suono dello Shofar da un’altra persona si richiede concorso di kawwanah reciproca da ambo le parti: colui che suona e colui che ascolta (Rosh ha-Shanah 29b). Nel Bet ha-Kenesset si presume che il Toqea’ indirizzi la propria kawwanah a beneficio di tutti coloro che lo sentono indistintamente, sebbene egli non sappia chi è presente e chi no, a condizione che ciascuno degli “undisclosed recipients” individualmente “risponda” con la propria kawwanah di assolvere all’obbligo. Ciò perché la Mitzwah è nell’ascolto (Maimonide, Hilkhot Shofar 1, 1), come diciamo nella Berakhah: “ci hai comandato di udire il suono dello Shofar” (Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 585, 2). Chi suona lo Shofar è solo shaliach (“delegato”) di chi lo ascolta affinché quest’ultimo esegua il precetto. Così se, per ipotesi, uno suonasse senza tuttavia udire il suono che emette, non uscirebbe d’obbligo!
Si può osservare che anche con la Meghillat Ester di Purim occorre far sì che l’orecchio oda ciò che la bocca pronuncia, altrimenti non si esce d’obbligo (Sha’ar ha-Tziyun a O.Ch. 689, n. 7; ma cfr. Kaf ha-Chayim a O.Ch. 692, n. 2). Perché lì invece la Berakhah è sulla lettura (“ci hai comandato la lettura della Meghillah”) e non sull’ascolto? Secondo una risposta la componente principale della Meghillah resta la lettura (Resp. Avnè Nezer O.Ch. II, n. 442). Altri ritengono invece che pure nella Meghillah conta l’ascolto, ma in quel caso esso implica avvertire la distinzione fra le lettere (pissuq otiyot) e quindi l’accento è posto comunque sulla lettura; a differenza dello Shofar che è un semplice suono e il suo ascolto non richiede un’attenzione particolare se non il porgere orecchio (Bet Yossef a O.Ch. 585, s.v. we-khatav). I nostri Maestri affermano che il suono dello Shofar è una forma di Tefillah: con esso ci rivolgiamo a D. perorando la Sua comprensione nei giorni del pentimento. Anche con la Tefillah vale il principio per cui chi ascolta e mette la necessaria kawwanah di uscire è considerato come se avesse pregato egli stesso. Ma mentre la preghiera (e così la Meghillah di Purim) corrisponde a un testo articolato non comprensibile a tutti il suono dello Shofar, con la sua semplicità, non richiede particolare perizia da parte di chi lo ode: quest’ultimo esegue il suo precetto senza soverchi sforzi.
Tornando alle Berakhot sulle Mitzwot c’è un’altra differenza importante, per quanto sottile, fra le due redazioni. Nel caso di Purim ringraziamo D. per averci comandato “la lettura della Meghillah” (’al miqrà Meghillah) con il sostantivo, mentre a Rosh ha-Shanah adoperiamo il verbo: “di ascoltare il suono dello Shofar” (lishmoa’ qol Shofar). Spiega il Bet Yossef (loc. cit. a nome di Ran) che il sostantivo è più generico del verbo e lo si adopera nei casi in cui la Berakhah si riferisce a una Mitzwah che si presta a essere eseguita anche per interposta persona, come la lettura della Meghillah appunto. Il verbo, più diretto, è preferito invece laddove la Mitzwah, per sua natura, non può essere delegata, come l’ascolto dello Shofar. Per semplice che sia questo impegno da assolvere, dobbiamo farlo in proprio, con le nostre orecchie e non con quelle altrui!
In un mondo come l’attuale in cui apparentemente si moltiplicano gli impegni quotidiani in misura esponenziale e tendiamo a selezionare la nostra partecipazione personale riducendola a ciò che ci preme o ci sta più a cuore delegando agli altri tutto il resto, la Mitzwah dello Shofar ci rammenta, all’inizio dell’anno, l’importanza del coinvolgimento diretto delle nostre persone nell’espletare le funzioni che in una misura o un’altra ci riguardano, se vogliamo ottenere risultati. Ma soprattutto lo Shofar ci richiama a correggere un altro difetto del nostro modo di vivere, a mio avviso diretta conseguenza del primo: ci educa all’ascolto, in una società dove tutti amano parlare e dire la loro più o meno a proposito illudendosi di attirare l’attenzione degli altri. Ma se noi per primi non siamo disposti a concedere spazio alla loro opinione, come possiamo davvero pensare che essi si curino della nostra?
Nella vita ebraica accade lo stesso. I nostri Battè ha-Kenesset sono sempre più deserti, per la mancanza di quel ricambio generazionale che è diretta conseguenza, a mio avviso, della negligenza con cui via via le famiglie hanno affrontato il tema dell’istruzione ebraica. Peraltro, non è mai troppo tardi per mutare rotta e ricominciare, altrimenti non avremo un futuro. E’ lo Shofar di Rosh ha-Shanah a indicarci i due principali ingredienti della ricetta. Anzitutto: partecipare di persona e non per delega. Ma ciò non è ancora sufficiente. Occorre venire con l’intento preciso di ascoltare. Lo Sfat Emet di Gur collega l’atto di udire il suono dello Shofar con due altri ben noti versetti della Torah in cui appare il verbo lishmoa’. Uno è: Shemà’ Israel (“Ascolta Israel”), la base dell’ebraismo. Se anche non avessimo altro merito che la lettura dello Shemà’, saremmo protetti dai nemici esterni (Rashì a Devarim 20, 3) così come da quelli interiori (Berakhot 5a). L’altro versetto è: Na’asseh we-nishmà’ (“Faremo e ascolteremo”), la promessa fatta al Monte Sinai. Dal momento che non siamo stati capaci di mantenere l’impegno a fare, rendiamoci almeno disponibili ad ascoltare. E a studiare!
Shanah Tovah. Ketivah wa-Chatimah Tovah.

Rav Alberto Somekh