CULTURA – L’epopea del Dibbuk in mostra a Parigi
«Quando un uomo muore prima del tempo,
la sua anima torna sulla terra
per vivere i suoi anni non vissuti,
per completare le sue azioni incompiute,
per sperimentare gioie e dolori».
Queste parola – una citazione dall’opera teatrale più nota di Sholem An-ski, scritta originariamente in russo e tradotta poi in Yiddish e in ebraico, Il Dybbuk – Tra due mondi – aprono una mostra che è appena stata inaugurata a Parigi, al Musee d’art e d’histoire du Judaïsme (MahJ). Le Dibbouk. Fantôme du monde disparu, ossia Il Dibbuk. Fantasma di un mondo scomparso e parte dall’origine religiosa della leggenda: la duecentesca idea di trasmigrazione delle anime. Le prime tracce compaiono in alcuni documenti che arrivano da Safed, comunità sefardita in Palestina, per comparire invece nel mondo ashkenazita molto più tardi, alla fine del diciassettesimo secolo. Produzione di amuleti, guaritori, in una progressiva popolarizzazione della kabbalah. Dalla storia dell’origine del demone reso celebre da An-ski si passa al racconto della missione che lo stesso autore guidò a inizio Novecento nell’attuale Ucraina, i cui materiali divennero il nucleo dei quello che sarebbe diventato il museo di etnografia ebraica di San Pietroburgo. Fu quel viaggio che diede a An-ski l’idea: il testo, pubblicato prima in russo nel 1914 e tradotto in yiddish perché potesse essere portato in scena da attori ebrei prima di arrivare alla versione in ebraico, che uscì nel 1918 grazie Haïm Nahman Bialik. Si intitolava originariamente Tra due mondi e Dibbuk era solo il sottotitolo. Nel 1922, tra varie traversie la messa in scena da parte del Teatro Habima (fondato a Mosca nel 1917 da Nahum Tsemah, Hanna Rovina e Menachem Gnessin) usò la versione in ebraico, con la mesa in scena di Eugueni Vakhtangov, allievo di Stanislavski. Le scene e i costumi di Nathan Altman e la musica di Joel Engel portarono l’opera al successo. La prima in yiddish del Dibbuk, invece, aveva avuto luogo nel dicembre 1920, a Varsavia, poco dopo la morte del suo autore: un’opera innovatrice, un vero e proprio trionfo che diventa rapidamente l’emblema del teatro yiddish. Nel 1937 per l’adattamento cinematografico si mettono al lavoro il meglio della scena letteraria e cinematografica di Varsavia, con un risultato ebbe grande successo e portava il segno dell’angoscia e della catastrofe che sarebbe avvenuta da lì a poco. Dibbuk sarà poi il nome in codice dato a Adolf Eichmann, e il personaggio tornerà nel 1967 nell’opera di Romain Gary La danse de Gengis Cohn, in cui il Dibbuk è l’anima di un criminale nazista che entra nel corpo di un commissario di polizia della Repubblica Federale Tedesca. Dopo la guerra è il simbolo di un mondo scomparso di quell’ebraismo europeo che non esiste più, e in America arriva grazie al teatro Habima, nel 1948, e poi grazie all’adattamento fatto da Sidney Lumet nel 1960, per la televisione. Tracce dei Dibbuk si trovano anche in West Side Story, e Bernstein creerà nel 1974 un balletto intitolato proprio Dybbuk. Per farlo risorgere là dove aveva mosso i primi passi bisogna aspettare il 1988, con Andrzej Wajda a Cracovia, quando per la prima volta viene messo in scena in polacco. Da allora in poi molte produzioni fanno riferimento alla Shoah, mentre il tema del Dybbuk è una presenza forte anche nelle arti visive. Dal teatro al cinema, con la scena introduttiva di A Serious Man dei fratelli Cohen, il passo è breve, mentre per l’arte è l’israeliana Sigal Landau che produce le opere più forti. Il Dibbuk è destinato a restare nell’immaginario collettivo: ha una capacità universale di evocare i fenomeni di possessione, e allo stesso tempo ci rimanda al mondo scomparso degli ebrei dell’Europa centrale e orientale.