LA CRITICA – Assael: La politica non trasformi l’euforia in tragedia
Accuse di terrorismo, richiami al diritto internazionale, persino accuse di uccidere bambini indiscriminatamente. Tutti strepiti, ovviamente a senso unico contro Israele: come se invece lanciare 10.000 razzi su un territorio straniero come ha fatto Hezbollah fosse una cosa perfettamente lecita e legale. La verità è un altra: Israele sta vincendo la guerra. Il riallineamento strategico fra governo, intelligence ed esercito sta, per la prima volta dall’inizio del conflitto, indicando una traiettoria che si potrebbe concludere con un ridisegno del Medio Oriente tutto a favore di Israele, che, dopo aver azzerato tutto lo stato maggiore di Hezbollah, può umiliare l’Iran, favorendo quel regime change che le iraniane e gli iraniani aspettano perlomeno dal 2009, anno delle rivolte di massa represse da Ahmadinejad. Mossa esiziale anche per una Hamas già stremata, che si ritroverebbe orfana dei propri protettori. Quel 7 ottobre che sembrava a tutti gli analisti la trappola perfetta per Israele, costretto ad assecondare la vergognosa logica del martirio del popolo dei vari Sinwar, Deif e soci, si sta rivelando un trappolone per tutto il cosiddetto asse della resistenza iraniano, in realtà un insieme di sigle criminali che si sono distinte negli anni per ferocia, logica mafiosa di governo e crudeltà in tutto il quadrante mediorientale, dove oggi, dall’Iran alla Siria, sono in molti festeggiare la morte di quel pluriomicida infame che portava il nome di Hassan Nasrallah. E ben più grandi sarebbero (o saranno?) i festeggiamenti per la morte del capo dei capi: quell’ayatollah Khamenei che vivrà sepolto in qualche grotta vicino al centro della terra, circondato da una ventina di assaggiatori, tanto è palese la penetrazione israeliana nel suo territorio, con sicuri ancoraggi nel vastissimo fronte di opposizione interna. Al termine del conflitto, Israele potrebbe così trovarsi con un Libano senza Hezbollah, perché mai potrebbe rinascere senza un supporto iraniano; un’Iran con un regime persino filo-israeliano, sentimento di gran parte della sua società civile assai più avanzata di quelle del mondo arabo, una Gaza da cui non partirebbero più razzi e palloni incendiari verso le città del Sud e con cui non si dovrebbe gestire un permanente conflitto a bassa intensità come era prima del pogrom di Hamas. Oltre a ciò, il consolidamento definitivo degli Accordi di Abramo, ultimo atto di un percorso di avvicinamento al mondo sunnita in atto dal 1979, con momento decisivo la fine della guerra fredda. Vasto programma, dove, ovviamente, non manca la carta degli imprevisti, ma, visti i successi militari di questi giorni, non appare del tutto impossibile.
Tutto bene, quindi, per Israele? No, perché, ed anche questo è un grande insegnamento degli ultimi anni, il pericolo maggiore deriva dal conflitto interno. Se è vero che, dopo mesi di manifeste divisioni anche comunicate a mezzo stampa dalle varie parti in gioco, governo ed apparati militari sembrano essersi riallineati a vantaggio di tutti, il dopo guerra appare un dilemma dove si ha da una parte una maggioranza politica che interpreta il 7 ottobre come l’occasione per perseguire il progetto del Grande Israele, dall’altra una componente che non ha alcuna intenzione di sprecare risorse umane ed economiche per presidiare luoghi (da Gaza al Sud del Libano, passando per la Cisgiordania) che sarebbe eufemistico definire ostili. Preferendo di gran lunga un accordo con le potenze regionali, dove un punto imprescindibile sarebbe la garanzia di sicurezza dello Stato ebraico. Sono due schieramenti, che, purtroppo, riflettono divisioni profonde della società israeliana e, direi, dell’ebraismo tutto. Come dice l’analista Shaul Arieli, giusta la soddisfazione per quanto vediamo oggi, ma l’euforia può tramutarsi presto in tragedia se non è guidata dalla politica.
Davide Assael