SUCCOT – La festa della gioia in tempi oscuri: la necessaria consolazione

La festa di Succot è l’ultima festività del mese di Tishrì, conosciuto con l’appellativo di “Yerach ha etanim – il mese dei giganti” a causa del gran numero di festività che esso contiene.
Infatti è quello che, rispetto a tutti gli altri mesi che del calendario ebraico, contiene il numero più alto di festività. Dalla tradizione rabbinica la festa di Succot viene definita con l’appellativo di “zeman simchatenu – epoca della nostra gioia” riguardo a ciò che troviamo scritto nella Torah: “we samachtà be chagghekha – e gioirai nella tua festa” (Devarim 16;14) e anche “we haita akh sameach – e sarai assai felice” (Devarim 16;15).
Per ben due volte, nello stesso capitolo, la Torah comanda al popolo, riguardo la festa di Succot, di “gioire nella festa” e di essere “molto felice”.
Perché la Torah comanda di gioire durante la celebrazione di una festività?
Se riflettiamo sul concetto delle prime due solennità del mese di Tishrì – Rosh ha shanà e Kippur – ci accorgiamo che il loro valore è quello di portare l’uomo a una riflessione interiore su ciò che è stato il proprio comportamento durante l’anno appena trascorso: Rosh ha shanà è chiamata dalla letteratura rabbinica yom ha din – giorno del giudizio, poiché si stima che all’inizio del nuovo anno l’uomo faccia un resoconto delle azioni commesse durante l’anno trascorso e cerchi di rimediare, riparando a ciò che ha fatto, attraverso opere di bene verso il prossimo.
Kippur è la manifestazione del pentimento e la promessa da parte dell’uomo di non ripetere più le azioni cattive commesse, riconciliandosi con se stesso, con il suo prossimo e con il Signore D-o, attraverso il pentimento, la preghiera e il digiuno. Soltanto cinque giorni dopo Kippur arriva la festa di Succot che è considerata, come detto sopra, la festa della gioia.
La gioia della riconciliazione, la gioia per il perdono ottenuto e per la ricompensa di un abbondante prodotto agricolo, simbolo della benedizione divina e della ricchezza.
Il comando di gioire durante la festa di Succot ci porta a riflettere equiparando questa festività a quella di Pesach e di Shavuot; perché a proposito di queste due festività, pilastri anch’esse della storia e della tradizione ebraica, non viene espresso dalla Torà la stessa mitzwà di gioire? Eppure la festa di Pesach ricorda l’uscita dall’Egitto, la conquista della libertà del nostro popolo, e Shavuot la donazione della Torà, che è la base su cui poggia tutta la tradizione di esso.
C’è un altro passaggio nel testo della Torà, nel libro di Devarim, in cui si cita la gioia come condizione necessaria alla benedizione divina: al capitolo 28 del Deuteronomio vengono elencate le kelalot, una serie di numerosi eventi negativi che colpiranno il popolo ebraico, nel caso in cui non osservasse le mitzwot. Al termine di esse, troviamo scritto: “per il motivo che non hai servito il Signore tuo D-o con gioia e cuore buono, quando avevi in abbondanza” (Devarim 28;47). Sembrerebbe che la gioia fosse al centro dell’osservanza delle mitzwot e fosse la condizione per una vita buona e piena di soddisfazioni, morali e materiali; alla base di una concezione chassidica, la gioia viene messa come conditio sine qua non, per fondare un giusto rapporto fra l’uomo e D-o: “Servite il Signore con gioia” (Salmi 100;2).
La festa di Succot è quella festa in cui ogni ebreo e non ha il dovere di gioire in essa; se però riflettiamo sugli eventi storici di essa, come comuni mortali, sentiamo la necessità di porci delle domande a cui però nessuno potrà mai dare una risposta esauriente.
Gli ebrei romani, dopo le varie persecuzioni subite nel corso della storia plurimillenaria della loro Comunità, piangono la data del 16 Ottobre, in cui più di mille persone fra uomini, donne, vecchi e bambini furono barbaramente strappate dalle loro abitazioni per essere condotte nei campi di sterminio nazisti e trucidate lì. Ebbene, quel 16 ottobre del 1943 era un sabato in mezzo alla festa di Succot.
Il 9 ottobre di molti anni dopo, nel 1982, gli ebrei romani furono nuovamente colpiti duramente, mentre uscivano dal Tempio Maggiore, dopo la preghiera festiva di Sheminì ‘atzeret (ottavo giorno di Succot), da terroristi palestinesi che lanciarono granate contro chiunque uscisse dal Tempio. In quell’attentato vi furono decine e decine di feriti gravi e perse la vita un bambino di due anni. Fu l’attentato più grave per una Comunità della Diaspora, dopo la Shoah.
Quarantuno anni dopo, il 7 ottobre dello scorso anno, lo stato di Israele ha subito il più grande attacco terroristico mai avvenuto dall’inizio della sua fondazione. Più di mille civili – uomini, donne, vecchi e bambini – furono uccisi, non prima di aver subito stupri, torture, sevizie; furono bruciati i loro corpi, alcuni decapitati e le loro case distrutte; furono catturati oltre duecento prigionieri, portati a forza nella Striscia di Gaza e tenuti lì prigionieri, molti uccisi o ancora ostaggi. Era ancora Sheminì ‘atzeret (ottavo giorno di Succot), la festa della gioia.
Ogni essere umano sarebbe tentato di interrogarsi su come sia possibile gioire, dopo questi fatti, casualmente avvenuti tutti durante la festa di Succot, in cui dalla Torà troviamo espressa esplicitamente la mitzwà di gioire in essa.
Se la gioia è la condizione primaria per osservare le mitzwot e andare “d’accordo” con il Signore, perché questi eventi, considerati fra i più luttuosi della storia moderna del nostro popolo, sono accaduti e proprio durante la festa della gioia? Come si può gioire dopo che sono accaduti simili fatti?
Molti correligionari si interrogarono, facendo domande ai rabbini, se celebrare le hakkafot di Simchat Torà, massima espressione della gioia della Torà e del popolo di Israele, la sera successiva a quell’evento, sia dell’82, sia del 2023. Ricordo molto bene le hakkafot della sera del 9 ottobre al Tempio maggiore di Roma; invece che una simchà del Chatan Torà era un pianto generale. Le hakkafot dello scorso anno furono esattamente la replica di quelle di quarantuno anni prima. La risposta a una simile domanda nessuno potrà mai darcela: “Ha nistarot l’A’ Elokenu – le cose occulte appartengono al Signore nostro D-o” (Devarim 29;28)! Ma nessuno ha mai rinnegato il suo legame con l’Eterno e la fede in Lui, nemmeno nei momenti più bui della nostra storia. Nonostante ciò, le hakkafot furono celebrate in ogni Comunità ebraica del mondo, compreso Israele, dove il dolore era assai più percepibile.
La nostra storia ci insegna che gli ebrei hanno sempre saputo trovare una sorta di consolazione, guardando più avanti, senza mai fermarsi; sperando, soprattutto, che il futuro riservi ai posteri una vita migliore.
Si narra che, mentre si recavano nelle camere a gas, gli ebrei recitassero gli articoli di fede di Maimonide, in cui si dice: “Io credo fermamente nella venuta del Messia e nonostante Egli tardi a venire io lo aspetterò”. Molti si chiesero se costoro fossero incoscienti di ciò che da lì a poco gli sarebbe accaduto. Altri invece sostennero che erano ben consci della loro sorte immediata, ma erano altresì sicuri che i loro posteri e coloro che sarebbero sopravvissuti a quell’orrenda sorte, avrebbero continuato a trasmettere la fede in D-o e in tutte le Sue opere.
La mitzwà di gioire sarà osservata nonostante tutto; nessuno potrà mai far smettere l’osservanza delle nostre feste e delle nostre tradizioni. Dicono i Chakhamim che la festa di Succot è l’ultima, non solo del mese di Tishrì, ma l’ultima di tutte le feste del nostro calendario. In essa si celebrerà la sconfitta di tutte le credenze pagane e la vittoria del monoteismo, manifestandosi a tutti i popoli della Terra, attraverso una speciale succà – capanna, che porterà gioia, felicità e pace a tutti coloro che hanno creduto nell’unico D-o, operando per il bene del prossimo.

Rav Alberto Sermoneta