IL CONTRIBUTO – Adachiara Zevi: Israele superi l’isolamento e punti alla pace

Ho molto apprezzato l’articolo di Goffredo Buccini pubblicato il 12 ottobre 2024 sul «Corriere della Sera», con il titolo La solitudine di Israele, lo stesso peraltro, a meno dell’articolo determinativo, dell’ultimo libro di Bernard Henry-Levy. Lucido ed equilibrato, lo scritto ruota intorno alla constatazione, ovvia per ogni israeliano e per la maggioranza degli ebrei della Diaspora, che la distruzione di Israele e l’annientamento di nove milioni di persone che vivono tra il Giordano e il Mar Mediterraneo, non è una minaccia astratta da parte di terroristi e Stati megalomani, ma una possibilità che il 7 ottobre ha reso mostruosamente reale al punto da essere considerata l’azione più efferata dopo la Shoah. Nel ribadire tale verità, Buccini non è però affatto giustificazionista, non libera Israele «dal fardello morale di 40.000 morti a Gaza», da un atteggiamento arrogante e sordo a qualsiasi richiamo internazionale, da una violazione costante delle libertà democratiche come il diritto a una informazione imparziale e senza censure.
Il dilemma in cui si dibatte oggi Israele e noi tutti nel tentare di giudicare ciò che accade, lungi da tifoserie e contrapposizioni manichee, è forse così riassumibile: Israele non può perdere la guerra contro il terrorismo pena la sua sopravvivenza, ma le modalità di questa guerra e il sacrificio di tanti civili inermi la stanno portando all’isolamento totale sul piano politico internazionale. E se l’antisemitismo è sempre esistito, spesso in versione antisionista, non c’è dubbio che il conflitto in corso ne abbia determinato un incremento molto preoccupante.
A distanza di un anno, Israele è dipinto dai media internazionali come l’aggressore, il colpevole di decine di migliaia di morti innocenti, mentre la responsabilità di Hamas per avere provocato questa immane tragedia è ormai sullo sfondo, scontata, superata, praticamente irrilevante. Le poche voci pensanti che, anziché tifare, spiegano, ragionano e distinguono, come quella coraggiosa della storica Anna Foa, sono purtroppo esigue e inascoltate. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, del resto, è disposto a tutto pur di sopravvivere politicamente, sordo alle richieste che salgono dalle piazze di tutta Israele di dare priorità alla liberazione degli ostaggi, un dovere morale e religioso ignorato persino dagli esponenti più integralisti della compagine governativa!
Eppure, come i sondaggi confermano, il consenso a Netanyahu in Israele cresce in modo direttamente proporzionale alla radicalizzazione ed estensione della guerra, all’aumento intollerabile di vittime, anche israeliane, su tutti i fronti del conflitto.
E non è affatto detto che, al cospetto delle urne, una buona parte di coloro che manifestano tutti i sabati non gli rinnovi la fiducia. Anche se è incredibile che in un paese democratico proteste così serrate e protratte nel tempo non siano riuscite a scalfire minimamente la posizione tetragona del governo!
Non basta forse a spiegarlo l’attitudine sprezzante e belligerante di Netanyahu. Gli assassinii mirati, i bombardamenti massicci, il rifiuto di qualsiasi tregua o di cessate il fuoco, illudono purtroppo molti israeliani di aver riguadagnato quella invincibilità e onnipotenza che il 7 ottobre aveva spazzato via. Se è vero, come sostiene Henry-Levy, che il 7 ottobre ha allineato Israele alla diaspora, nel rendere vulnerabile Israele, quella mattanza ha reso noi tutti vulnerabili al punto da chiederci: ma Israele è ancora quel porto sicuro per gli ebrei della Diaspora in fuga dalle avversità della Storia, che ne aveva motivato la fondazione? La quantità di israeliani che stanno abbandonando il paese non incoraggia una risposta affermativa.
«La solitudine di Israele è per noi quasi intraducibile», conclude Buccini, «deriva dalla difficoltà dell’Occidente di comprendere questa condizione, in un territorio che era (e, nonostante tutto, resta) avamposto dei valori occidentali dentro un quadrante geopolitico dominato da teocrazie e regimi assoluti».
Si è detto spesso che il 7 ottobre è stato per Israele quello che l’11 settembre è stato per gli Stati Uniti. A partire proprio dal presidente Usa Joe Biden quando all’indomani dell’eccidio ha ammonito Netanyahu a non compiere gli stessi errori. «Questo paragone non sta in piedi», commenta Buccini, «peggio, ci allontana dalla comprensione delle cose. A parte la perdurante angoscia di New York colpita nel simbolo delle Torri gemelle, a nessun americano in quegli anni passò mai per la testa l’idea di potenze islamiste capaci di annichilire gli Stati Uniti sul loro territorio, cancellandone il profilo dalle mappe. Che è, invece, esattamente, l’incubo che accompagna ogni israeliano dal sabato nero del pogrom».
Schiacciati dallo sdegno per gli eccessi bellici delle Idf, quell’incubo «intraducibile» ci rende disperatamente soli, ci spinge a evitare ogni confronto per tema che diventi uno scontro, anche con le persone più care e raziocinanti.
Un barlume di speranza viene però dal Libano dove l’insofferenza nei confronti di Hezbollah è crescente al punto che alcuni esponenti governativi, «i difensori del Libano», si propongono di definire strategie efficaci al suo contenimento. Se gli stati che ospitano i terroristi capiscono quanto questi ultimi siano diventati un problema per la loro sopravvivenza e si pongono l’obiettivo di eliminarli, siamo sulla strada giusta. Nel momento in cui gli Stati arabi e i palestinesi decideranno di fare in prima persona «il lavoro sporco» che opportunisticamente hanno delegato a Israele, quegli stessi Stati e quel popolo diventeranno interlocutori credibili al tavolo della pace. Con questa complicità: il riconoscimento dello Stato ebraico entro confini sicuri e la fondazione dello Stato palestinese, per la realizzazione del quale ogni ostacolo va rimosso, a partire dallo smantellamento delle colonie. Così «due popoli e due stati», per i quali ci battiamo da decenni, diventerà finalmente una prospettiva politica e non più uno slogan.

Adachiara Zevi