LA POLEMICA – Emanuele Calò: La guerra Usa contro l’ingiusta Cpi

I mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant suscitano delle fondate perplessità. Non è esaltante che il giure incroci così spesso la psicologia, ma così è: la Corte non considera che i soggetti incriminati hanno esercitato il diritto alla legittima difesa, a fronte di attacchi pluridecennali da parte di entità terroristiche come Hezbollah e Hamas. Se soltanto ora la Corte si è mossa, vuol dire che la sua difesa in questi ultimi decenni, considerata lecita, ora non lo è più. Ora, se due entità certamente non statali attaccano da decenni uno Stato al fine di distruggerlo, forti dell’appoggio economico e militare di un terzo Stato, sembra paradossale che la responsabilità possa essere della vittima. Intendiamoci, esistono diverse convenzioni internazionali che regolano lo stato di guerra, nell’ambito del cosiddetto diritto umanitario. Tuttavia, mentre su abusi ed eccessi la discussione è sempre lecita, trovare una giustificazione per l’accusa di genocidio non è possibile, perché appare strano che l’aggressore sia il bersaglio dichiarato del protratto tentativo di genocidio ai danni degli ebrei.
Gli Stati Uniti d’America, nel 2002, emanarono una legge chiamata Servicemembers’ Protection Act (ASPA), detta anche volgarmente Hague Invasion Act (Legge sull’invasione dell’Aia) in risposta all’istituzione della Corte penale internazionale (Cpi)
Il Congresso americano temeva che la Corte penale internazionale potesse essere utilizzata per arrestare i soldati americani in territorio straniero per ragioni puramente politiche. Si è detto che «le argomentazioni contro la Cpi possono essere riassunte come segue: a) la Corte penale internazionale non rispetta le garanzie costituzionali e procedurali degli Stati Uniti; b) La partecipazione alla CPI rappresenterebbe una cessione impropria della sovranità degli Stati Uniti a un soggetto irresponsabile c) l’opposizione degli Stati Uniti alle rivendicazioni di giurisdizione della Cpi sugli individui degli Stati che non hanno firmato il Trattato; d ) la Corte penale internazionale usurperebbe il ruolo primario del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, indebolendo ulteriormente l’Onu». (Così, McShane, Thomas W., and J. Boone Bartholomees, the United States and the International Criminal Court, the U.S. Army War College Guide to National Security Issues, Strategic Studies Institute, US Army War College, 2010, p. 282).
La Section 2002, 5, dispone che «Le forze multinazionali di mantenimento della pace che operano in un paese che ha aderito al trattato possono essere esposte alla giurisdizione della Corte anche se il paese del singolo peacekeeper non ha aderito al trattato. Pertanto, il trattato pretende di stabilire un accordo in base al quale le forze armate degli Stati Uniti che operano all’estero potrebbero essere presumibilmente perseguite dalla corte internazionale anche se gli Stati Uniti non hanno accettato di essere vincolati dal trattato. Ciò non solo è contrario ai principi più fondamentali del diritto dei trattati, ma potrebbe inibire la capacità degli Stati Uniti di utilizzare le proprie forze armate per soddisfare gli obblighi dell’alleanza e partecipare a operazioni multinazionali, compresi gli interventi umanitari per salvare vite civili. Altri partecipanti alle operazioni di mantenimento della pace verranno esposti in modo simile».
La section 2004 vieta di cooperare con la Corte penale internazionale; la section 2006 vieta di fornire/trasferire alla Cpi «classified law enforcement information e National security information»; section 2007: nessuna assistenza militare da parte degli Stati Uniti può essere fornita al governo di un paese che è parte della Corte penale internazionale a meno che sia membro della Nato oppure un principale alleato non Nato (tra cui Australia, Egitto, Israele, Giappone, Giordania, Argentina, Repubblica di Corea e Nuova Zelanda) oppure Taiwan; Section 2008: stabilisce il potere di liberare dei membri delle forze armate degli Usa e di altre persone detenute o imprigionate da o per conto della Corte penale internazionale.
Dopo che il 21 novembre la Cpi ha emesso mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato che l’atto era vergognoso», aggiungendo che «qualunque cosa la CPI possa implicare, non c’è equivalenza – nessuna – tra Israele e Hamas». La senatrice Lindsey Graham (R-SC) ha affermato che la Corte penale internazionale è «corrotta fino al midollo» e «un’organizzazione canaglia e politicamente motivata». Una dichiarazione bipartisan rilasciata dal senatore Graham insieme al senatore John Fetterman (D-PA) e al nuovo leader della maggioranza al Senato John Thune (R-SD) ha avvertito che «accettare la giurisdizione della Corte su Israele significa concordare, in teoria, che hanno giurisdizione sugli Stati Uniti».
David May, responsabile della ricerca e analista di ricerca senior, ha dichiarato che «L’approvazione da parte di Hamas dei mandati della Cpi non è una sorpresa. In realtà, tutto ciò fa parte della strategia del gruppo terroristico di aumentare la sofferenza dei civili da entrambe le parti per provocare la condanna internazionale di Israele. Israele ha fatto di tutto per evitare vittime civili, anche inviando avvertimenti per evacuare le zone di combattimento, e ha facilitato il trasferimento di aiuti umanitari mentre era sotto il fuoco di Hamas. Nel frattempo, il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran ha bruciato, violentato e ucciso il sud di Israele e promette di farlo ancora. Metterli sulla stessa barca mostra quanto il tribunale sia diventato disconnesso dalla realtà. E quei paesi che accolgono la decisione della Corte penale internazionale dovrebbero vergognarsi di essere nella stessa barca di Hamas nel tifare per questo tribunale farsa».
Beninteso, si tratta di dichiarazioni di parte. Ciò che invece incute timore è la mancanza di imparzialità. «Un infelice compleanno a te. 48 anni di occupazione». La dedica è rivolta a Israele e a firmarla è stato Nawaf Salam, Presidente della Corte. È il giugno 2015 e, mentre posta sui social il suo messaggio, Salam è in carica come rappresentante permanente del Libano alle Nazioni Unite. Tre anni dopo diventa uno dei quindici giudici della Corte internazionale di Giustizia (Cig). Inseguito, i suoi colleghi l’hanno nominato nuovo presidente della Corte che ha sede all’Aia. (Jpost, 7 Febbraio 2024). Nella sua qualità di rappresentante del Libano presso l’Onu, Salam ha votato la condanna d’Israele 210 volte. Queste risoluzioni contenevano denunce unilaterali nei confronti di Israele e davano via libera a Hamas. Ad esempio, nel dicembre 2008, Salam votò a favore di una risoluzione che accusava Israele di atti di terrore, provocazione, incitamento e distruzione» contro i palestinesi, senza però menzionare Hamas o la Jihad islamica. Nei suoi discorsi alle Nazioni Unite, Salam ha fatto anche molte dichiarazioni provocatorie che dimostrano un estremo pregiudizio contro Israele. Nel gennaio 2008, Salam ha accusato «organizzazioni terroristiche ebraiche» di aver commesso «massacri». Ha anche detto che Gaza è una prigione a cielo aperto». La Cpi, in ogni caso, malgrado l’opposizione incontrata, ha riconosciuto che la Palestina è uno Stato, dando così modo di addivenire alla presente vicenda. Tre domande: a) se è uno Stato, perché non stipula la pace con Israele, senza pretendere che lo Stato ebraico accolga milioni di rifugiati, il che costituisce un’ingerenza nella politica di un altro Stato? b) se è uno Stato, perché elargisce delle attribuzioni patrimoniali nel caso di un suo ‘cittadino’ che compia attentati in Israele o contro israeliani? c) che c’entra Gaza con l’Autorità Nazionale Palestinese, da un ventennio totalmente nelle mani di Hamas, che aveva massacrato gli esponenti dell’Olp, buttandoli senza problemi dalla finestra?
Non è quindi un caso che gli Usa, con la predetta legge, non solo si rifiutino di far parte della Corte, ma si riservino il potere di usare la forza contro le sue decisioni. La soddisfazione degli operatori del diritto (teorici e pratici) dovrebbe risiedere nella più assoluta imparzialità. Eppure, Hans Kelsen aveva sostenuto che le sentenze sono atti di volontà e non di scienza.
Nel novembre 1972, incrociai Ada Sereni (vedova di Enzo) presso la nostra zia Ida Coen. Ada mi raccontò quando, per liberare la nave dell’Alià Bet, si recò a Firenze per chiedere lumi ad un professore di diritto internazionale, il quale le spiegò: le dico subito in cosa consiste il diritto internazionale, consiste nella legge del più forte». Basta saperlo.

Emanuele Calò