LA POLEMICA – Emanuele Calò: La linea rossa

Ho la sensazione che manchi qualcosa, a me, ma non solo a me. Ciò che latita è la soluzione del rebus. Quali dovrebbero essere le nostre priorità? Anzitutto il principio di prossimità. Tale principio potrebbe dirci, anzitutto, che chi non è capace di difendere se stesso, difficilmente potrebbe difendere gli altri.
L’antisionismo non è un termine serio, ma un eufemismo. Dico ‘i sionisti’, ma intendo dire ‘gli ebrei’, perché so che nel secondo caso mi aspetta la norma penale, mentre nel primo non mi attende nessuno.
Attribuire le colpe al solo Israele è uno sport risalente e, se lo volessimo unificare con il c.d. antisionismo, sarebbe quasi contemporaneo della pallacanestro, che convenzionalmente si fa risalire al 1891.
Naturalmente, vi sono diverse opinioni in argomento. Un illustre studioso ha scritto qualche tempo addietro, che fino al 1948 il movimento sionista non era esclusivamente razzista. Poiché sono fra i moltissimi che considerano che il sionismo sia un movimento di liberazione nazionale, ho avuto la sorpresa di scoprirmi razzista. Non ho ancora ringraziato lo scopritore per avermi insegnato qualcosa che non sapevo, ma non mancherà occasione.
Il 1° marzo 1899, il sindaco di Gerusalemme Yousef Al – Khalidi scrisse a Teodor Herzl: «sapete bene che sto parlando del sionismo. L’idea in sé è naturale, bella e giusta. Chi può contestare i diritti degli ebrei in Palestina? Mio Dio, storicamente è il Tuo paese! E che spettacolo meraviglioso sarebbe se gli ebrei, così dotati, venissero ricostituiti come una nazione indipendente, rispettata, felice, capace di rendere servizi alla povera umanità nel campo morale come in passato!»
Nel seguito della missiva, disse che era un’idea poco opportuna, ma a noi razzisti esclusivi (sempre secondo questo studioso) interessa soltanto mettere a fuoco che è incontestabile il legame nostro con Israele.
Ciò detto, noi siamo in Italia, siamo fieri di essere cittadini italiani, e per il principio di prossimità dovremmo difendere l’onore delle nostre comunità. Quando un signore dice in televisione che una gran parte della diaspora delle comunità ebraiche non vuole convivere coi palestinesi, la frase è incomprensibile, ma ciò che ci attribuisce non è molto carino, e inoltre è arbitrario. Sicuramente non gli piacerebbe che dicessimo altrettanto su di lui.
Ecco che il discorso sul principio di prossimità inizia a prendere forma: non è esteticamente impeccabile (eufemismo) che si varchi la linea rossa che separa l’antipatia (secondo eufemismo) verso Israele, da un’opinione sugli ebrei (gran parte di cosa? Si parla della maggioranza degli iscritti o della maggioranza delle comunità? Il riferimento alla convivenza, poi, non lo avrebbero capito nemmeno Freud e Einstein insieme).
A me non dispiacerebbe che si evitasse di attribuirmi come iscritto a una Comunità ebraica, in modo del tutto arbitrario e “sparando” nel mucchio, un atteggiamento intollerante. Nemmeno mi piace che qualche rock star dica che le Comunità ebraiche debbano assumere una posizione piuttosto che un’altra, perché le Comunità ebraiche non sono un partito politico e fra i loro iscritti vi sono tutte le opinioni possibili e immaginabili. Le Comunità, e l’Ucei, agiscono in modo
impeccabile, seguendo i codici di comportamento previsti dall’ordinamento giuridico; se poi tale ordinamento non fosse noto, forse perfino il sottoscritto sarebbe capace di spiegarlo.

Emanuele Calò