LA POLEMICA – Emanuele Calò: Critica o linciaggio?
Ormai vi è una certa consapevolezza sul fatto che abbiamo un problema con la stampa e con gli organi di informazione in generale Livio Sirovich (Moked, 9 gennaio 2025) ha individuato uno dei problemi nella deformazione della realtà operata dai media. Un altro problema, sempre riguardante i media, concerne l’enunciazione di affermazioni indimostrabili; ad esempio in televisione si è detto: “Le Comunità ebraiche della Diaspora non vogliono convivere coi palestinesi”, un’opinione così priva di senso da non poter essere contrastata. Anche quando si discorre di genocidio, si evita accuratamente di ricorrere alla definizione della Convenzione dell’Onu dalla cui lettura si evincerebbe che la guerra in corso non rientra nella previsione normativa. Chi accusa è sempre in vantaggio, perché respingere le accuse, anche se palesemente corrive, ti colloca in una posizione di inferiorità, e questo l’autore lo sa. Per quello si diletta nel lancio di strali, se non altro per pregustarne gli effetti.
Nei riguardi dell’indimostrabilità, abbiamo visionato un articolo di commento su un quotidiano a un’intervista sul conflitto in corso in Medio Oriente tra Israele e i suoi vicini, che ha suscitato scalpore fra taluni, grande interesse fra talaltri, nel quale i toni erano inusitatamente carichi. Onde capirne la ragione, ho svolto una breve ricerca sui social su chi aveva scritto tale articolo. Busso – virtualmente – alla porta delle reti, e mi ritrovo che chi ha scritto il citato articolo esprime sui social un’affermazione (diciamo) interessante, a tenore della quale per il primo ministro d’Israele soltanto gli ebrei avrebbero diritto di vivere. Seguite il mio consiglio: quando vi imbattete in affermazioni oppure in toni, che escono dal seminato, abbiate la curiosità di vedere cos’altro abbia scritto l’autore su Israele, sugli ebrei o sul conflitto in corso. Potreste imbattervi nelle solite ‘perle’ del pensiero del secolo XXI.
Nel suo saggio Anti-Dühring, Friedrich Engels scrisse: “Marx nota: ‘Qui, come nelle scienze naturali, si rivela la validità della legge scoperta da Hegel nella sua Logica che mutamenti puramente quantitativi si risolvono a un certo punto in differenze qualitative’”. Naturalmente, Engels (in debito con Hegel, come lo stesso Marx) disquisiva di politica, e anche noi, qui, tentiamo di farlo, ma soltanto per capire e capirci. Nel nostro caso, l’accumulazione di accuse pretestuose e indimostrabili è la chiave di passaggio dalla critica al linciaggio. Attribuire un’intenzione non è solo un varcare le linee rosse, è pure un’avventura procellosa, e a me pare che possa essere pure un’incursione distante dal metodo scientifico. Karl Popper (The logic of scientific discovery) avrebbe avuto piacere a confrontarsi con questo problema.
L’affermazione su Netanyahu, fatta dalla giornalista sui social, sopra riportata, è palesemente indimostrabile, e quindi ci pare estranea al metodo scientifico. Perché, allora, ci si lancia in affermazioni di questo tipo? Un esempio estremo: ai tempi di Roosevelt, l’America subì l’attacco a Pearl Harbor (“a date that will live in infamy”) e la guerra che ne è seguita finì quando Truman fece lanciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Eventi indescrivibili e non condivisibili, ma nessuno attribuì al Presidente USA l’idea che i giapponesi non avessero diritto di vivere. Insomma, per capire perché si varchino tante linee rosse in sede giornalistica, bisognerebbe smettere di fare troppi convegni sulla Shoà (ormai si sa tutto e chi li fa sa che nessuno gli darà torto) e avere il coraggio di dedicare energie ad esaminare il perché di questi salti logici, studiandone la scaturigine e gli scopi, a meno che si sia per l’atto gratuito, come descritto da André Gide ne I sotterranei del Vaticano.
L’indimostrabilità è la connotazione delle affermazioni estranee al metodo scientifico, e stranamente si tratta sempre di fornire un’immagine atroce anche delle Comunità Ebraiche, finendo sempre nel vago. In tutti questi casi, si tratta di affermazioni prive di contraddittorio. Sarebbe opportuno che si approfondissero tutti questi profili, in quanto incompatibili con le regole minime che dovrebbero contrassegnare i principi fondanti di una democrazia. La reazione ai conflitti in cui siano coinvolti gli ebrei, pone in essere ciò che Stanley Cohen chiama “moral panic“, laddove rileva la percezione della minaccia più della sua reale esistenza (Folk Devils and Moral Panics, London/N.Y., Routledge, 2002 (c) 1972, p. 16). Discorriamo di “percezione” non perché ci siamo dimenticati delle vittime, ma perché tutti gli interventi televisivi si svolgono “inaudita altera parte”. Sono decenni che da Gaza vengono lanciati dei razzi su Israele senza che vi sia alcuna rivendicazione sulla condotta che dovrebbe adottare lo Stato ebraico per porre fine all’aggressione, e tutta questa situazione kafkiana è parsa e pare ancora del tutto normale, quando normale non è. Nemmeno è normale che il conflitto non riguardi uno Stato, come in passato, bensì entità qualificate come terroristiche dall’Unione europea. Finché questo andamento non cederà il passo ad una riflessione tendente non a un cessate il fuoco (ammesso che lo si accetti) ma ad una pace duratura, saremmo costretti a esaminare questa tragedia sotto la scoraggiante lente della patologia, anche psicologica.
Emanuele Calò