LIBRI – Memoria nelle scuole, la ricetta di Corradini
«C’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli», si legge in un noto passaggio del Qohelet. Per l’ebraista e scrittore Matteo Corradini, fare Memoria è soprattutto questo: «Raccogliere sassi». E far sì che si depositino nella coscienza dei giovani, ai quali l’autore ha dedicato molti libri.
Il suo ultimo Noi siamo Memoria (ed. Erickson – presentato il 16 gennaio alle 18.00 presso la Comunità ebraica di Firenze) è un compendio di didattica per insegnanti, con percorsi su ebraismo e Shoah rivolti alla scuola secondaria (una precedente opera dello stesso filone era dedicata alle scuole elementari).
Per Corradini, per far sì che la Memoria lasci davvero un segno tra le nuove generazioni, non basta rievocare il baratro della persecuzione. È invece indispensabile guardare l’ebraismo “da vicino”, conoscerne storia, riti e momenti di passaggio. Ecco così che tra le attività proposte in classe si passa dall’organizzazione di una festa per la maggiorità religiosa di una ragazza (bat mitzvah) allo studio dell’alfabeto ebraico, perché nell’ebraismo l’alfabeto non è solo una «convenzione per rappresentare il linguaggio», ma anche stella polare dell’intera storia ebraica e una proiezione dei suoi «slanci e desideri».
E ancora, suggerisce l’ebraista ai docenti, sarebbe bene che nelle scuole si preparasse o perlomeno si assaporasse ogni tanto la challah, cogliendone anche in questo caso le simbologie profonde. Perché il pane del Sabato ebraico è un pane di «condivisione», valore supremo da presidiare e difendere in ambito educativo. C’è bisogno anche di queste nozioni, fa capire Corradini, affinché il Giorno della Memoria sia vissuto in pienezza e lontano da ogni celebrazione retorica ma che sia «un’occasione importante per rispettare le vittime, per fare comunità intorno a un appuntamento civile e per crescere come singoli e cittadini insieme».
Quanto al metodo su come trasmettere la Shoah a giovani talvolta distratti o poco interessati all’argomento, l’invito è a lavorare sulle domande «perché in un percorso sulla Shoah, la tendenza troppo spesso sembra essere quella di dare risposte». Suscitare domande è certo più complesso, riconosce l’autore, due volte vincitore del Premio Andersen (2018 e 2024), «ma significa accendere una curiosità dapprincipio, e in seguito una passione che potrà essere coltivata: non chiudere l’argomento, ma aprirlo alla ricerca personale e all’avvicinamento a una presa di posizione».
Lo scriveva d’altronde anche Elie Wiesel ne La notte: «Ogni domanda possiede una forza che la risposta non contiene più».