TORINO – Polo del ‘900, sedersi e riflettere su Levi
L’installazione Tornare; mangiare; raccontare. 1945: Primo Levi e la liberazione di Auschwitz non si trova in un vero spazio espositivo. È stata posizionata invece in un luogo di passaggio, all’interno di Palazzo San Daniele, parte del Polo del ‘900 di Torino. Chi passa, per esempio per andare nella vicina biblioteca, si imbatte nelle parole di Primo Levi, nelle immagini della liberazione di Auschwitz, nella casacca di un deportato donata dallo stesso Levi all’Aned.
«Il nostro obiettivo è creare un’esperienza immersiva e intuitiva, che permetta al visitatore di fermarsi anche solo un attimo, sedersi sulla panchina vicino all’installazione, e lasciarsi interrogare dalle parole di Levi, dalle immagini, dagli oggetti. Non volevamo sommergere il pubblico con testi e informazioni storiche, ma offrire spunti di riflessione attraverso alcuni segni», spiega Victoria Musiołek, curatrice assieme a Daniela Muraca del progetto, realizzato dalla Fondazione di studi storici Gaetano Salvemini e dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi.
L’installazione, spiega Musiołek, si sviluppa attorno a diversi elementi che dialogano tra loro: immagini, testi poetici, cimeli, documenti. L’immagine guida è un fotogramma tratto dal girato dell’Armata russa realizzato durante la liberazione di Auschwitz: un video di quattro minuti e mezzo in cui i liberatori mostrano ciò che hanno trovato nel lager. «Immagini che si intrecciano con le parole di Levi nelle pagine iniziali del libro La tregua, che racconta l’incontro con i soldati russi, restituendo una doppia ottica: quella dei liberatori e quella dei liberati».
All’interno dell’installazione è presente la citata casacca donata all’Aned, appartenuta a un compagno di Levi. «Non è la sua, ma il gesto di donarla alla memoria collettiva la carica di un forte significato simbolico. Questo elemento si lega al tema della vergogna, che Levi descrive sia nei liberatori, colpiti dall’orrore di ciò che vedono, sia nei deportati, spogliati di tutto, sottoposti a un’umiliazione fisica e psicologica che segna il loro ingresso nel lager», prosegue la curatrice.
Accanto alla casacca, il dattiloscritto di Storia di dieci giorni, il primo testo dello scrittore e sopravvissuto torinese dopo il ritorno, poi divenuto l’ultimo capitolo di Se questo è un uomo. «Anche qui il legame con il filmato è forte: il testo racconta i dieci giorni trascorsi nel campo dopo l’evacuazione nazista, in attesa della liberazione. È un passaggio essenziale della memoria, che ci porta dalla realtà del lager alla necessità di raccontare agli altri quello che è stato».
Un tema richiamato anche nel titolo dell’installazione, Tornare; mangiare; raccontare, tratto dalla poesia Alzarsi. «Levi descrive il bisogno di testimoniare come una necessità primaria, sullo stesso piano della fame e del ritorno a casa: il ricordo non è solo un dovere morale, ma un bisogno fisiologico, un’urgenza vitale», sottolinea Musiołek.
L’ultimo elemento è l’elenco che Levi redige nel 1961 per il processo Bosshammer: un documento in cui cerca di ricordare i nomi dei suoi compagni di prigionia, segnando chi è morto, chi è sopravvissuto, chi ha preso parte alla marcia di evacuazione. «Un vero e proprio inciampo visivo, che ci ricorda come la liberazione non sia stata uguale per tutti e che molti, troppi, non sono mai tornati».
d.r.