PURIM – Il divieto di allungare la mano

Perché Haman, il malvagio primo ministro di Persia, è stato punito così pesantemente per un crimine, quello di sterminare il popolo ebraico, che di fatto non ha commesso? La chiave dell’enigma potrebbe trovarsi in un verso nell’ottavo capitolo della Meghillat Ester in cui è detto che “lo impiccarono sulla forca per aver allungato la mano (shalach yadò) contro gli Ebrei” (v. 7). Una prima osservazione sul testo ci porta a concludere che deve essersi trattato di una sorta di contrappasso. Nel secondo capitolo, allorché siamo ancora ai preliminari della vicenda, ci viene infatti raccontato che l’ebreo Mordekhay era riuscito a sventare un attentato contro il re Achashverosh: i due malcapitati eunuchi Bigtan e Teresh furono a loro volta impiccati “per aver cercato di allungare la mano (lishlòach yad) contro il re” (2, 21). Non è un richiamo casuale. Sebbene il re Achashverosh e il suo ministro Haman non fossero la stessa persona, essi concordavano sulla politica di sterminio e la condanna del secondo personaggio sanzionava anche la protervia del primo.
Cosa significa “allungare la mano” contro qualcuno? Non è una dizione generica, ma un concetto halakhico preciso. Nel capitolo 22 di Shemot si parla di oggetti spariti dopo essere stati dati in custodia. Il diritto ebraico nutre un profondo rispetto per le cose degli altri al punto che il guardiano, si fosse anche assunto l’impegno a titolo gratuito e quindi con il minimo della responsabilità, si sgrava dal dovere del risarcimento solo dopo aver giurato di non “aver allungato la mano (shalach yadò) sulla proprietà altrui” (v. 7). La Halakhah stabilisce che, allorché il custode “allunga la mano” sull’oggetto affidatogli da altri, cessa ogni rapporto di fiducia con il proprietario: da quel momento egli diviene semplicemente un ladro ed è responsabile del rimborso integrale dell’oggetto manomesso qualsiasi cosa sia accaduta. Non solo: nella misura in cui avesse idea di adoperare l’oggetto in un modo tale da diminuirne il valore, è ritenuto responsabile dell’oggetto dall’istante in cui lo ha preso in mano anche se nel frattempo la sua intenzione non si è realizzata (shelichut yad lo tzerikhah chissaron: Bavà Metzi’à 43a; Shulchan ‘Arukh Choshen Mishpat 292, 1). Il popolo ebraico era stato affidato dal re Achashverosh alle “cure” di Haman, che da quel momento ne divenne il “custode” (Ester 3, 11). Nel momento in cui Haman “allungò la sua mano” contro di esso con l’idea di sterminarlo, divenne colpevole di tutto ciò che sarebbe accaduto successivamente agli Ebrei anche se la sua intenzione non si fosse realizzata.
In difesa di Haman si può tuttavia argomentare ulteriormente che il ministro fu condannato prima ancora di aver mosso anche un solo dito contro gli Ebrei. Nella Mishnah (Bavà Metzi’à 3, 12) solo Shammay giunge a sostenere che basta una semplice dichiarazione di intenti davanti a testimoni (Ester 3, 8-9) per inchiodare una persona alle sue piene responsabilità verso l’oggetto affidatogli anche se di fatto non lo ha poi mai toccato. Di più. Nel Talmud (Qiddushin 39b) i Maestri spiegano che se uno ha una buona intenzione ma non riesce a realizzarla per un impedimento di forza maggiore, il S.B. glielo ascrive comunque a merito come se l’avesse tradotta in azione. Le cose stanno diversamente nel caso di un proposito cattivo: il S.B. non punisce mai la persona per il solo pensiero cattivo finché non lo ha effettivamente compiuto!
Le Tossafot (ad loc., s.v. machshavah) commentano che occorre distinguere fra le persone per bene, per le quali vale questo principio, dagli empi e gli idolatri come Haman. L’uomo onesto è naturalmente portato più per i pensieri buoni che per quelli cattivi. Se egli rinuncia a compiere una buona azione non lo fa mai per sua scelta, ma solo perché è impedito dall’esterno. Perché a questo punto negargli la ricompensa della buona azione per il solo fatto di essere stato impedito a farla? Inverso è il caso di un malvagio. Lo vediamo con Esaù di cui è scritto: “Per la violenza (chamàs!) che hai perpetrato a tuo fratello Ya’aqov la vergogna ti ricoprirà e sarai reciso per sempre” (Ovadyah 1, 10). A quale violenza si allude, dal momento che mai Esaù ha fatto del male a Ya’aqov? Il solo fatto di aver pronunciato il proposito di ucciderlo (Bereshit 27, 14) lo rese colpevole! Non dimentichiamo che ‘Amaleq, di cui Haman era discendente, era a sua volta nipote di Esaù…
Quanto agli Ebrei, allorché furono autorizzati a difendersi nel giorno del loro sterminio, la Meghillah ripete tre volte che “non allungarono la loro mano (lo shalechù et yadàm) sul bottino” (Ester 9, 10.15.16). La Torah ci insegna a dare piuttosto che a prendere. A Purim siamo obbligati a tre donazioni: il “mezzo siclo” (machatzit ha-sheqel), da versare in onore del S.B. ancor prima che la festa cominci; i doni ai poveri (mattanot la-evyonim) e l’invio di vivande agli amici (mishloach manot). Esse ci ricordano i tre contributi (terumot) che i nostri Padri furono chiamati a dare per la costruzione del Mishkan nel deserto, due dei quali in denaro e il terzo “in natura” (Rashì a Shemot 25, 2; Tossafot a Meghillah 16a s.v. we-dachey).
Rav Alberto Somekh
Nell’immagine: Il trionfo di Mordecai di Pieter Pietersz Lastman (1583-1633)