LA RIFLESSIONE – Rav Alberto Somekh: Dove porta la porta
Le porte sono fatte per essere aperte o per essere chiuse?
Mi spiego meglio: le porte servono per segnare il passaggio da un ambiente all’altro, introducendo chi le attraversa a una nuova esperienza, una nuova fase della sua esistenza, o per selezionare, se non addirittura precludere un transito del genere? I due versetti dell’Hallèl ben noti: «Apritemi le porte della giustizia, passerò per esse, ringrazierò D. Questa è la porta per H., i giusti passeranno per essa» (Tehillim 118, 17-18) è così commentato dal Midrash Shocher Tov: «Nel mondo a venire si chiederà a ciascuno che cosa ha fatto nella vita. Se risponderà: ho dato da mangiare agli affamati, gli si risponderà: Questa è la porta per H.’, entra pure». Così anche a chi avrà risposto: ho dato da bere agli assetati, ho dato da vestire agli ignudi, ho cresciuto degli orfani. Ma quando si presenta il re David e dichiara: «Le ho fatte tutte», gli si spalancano tutte le porte. La cosa può essere paragonata a un mercante in viaggio con la sua mercanzia. Incontra coloro che minacciano di ucciderlo, li paga; incontra i rapinatori, li paga. Ma quando infine arriva alle porte della città, i gabellieri gli dicono di stare attento, perché lì c’è il governatore: «Se non versi tutti i dazi, ti confisca tutto». Nel primo versetto che esprime la richiesta dell’uomo, “porte” è scritto al plurale e “giustizia” al singolare: uno crede che sia sufficiente un solo merito affinché gli vengano aperte tutte le porte. Nella risposta di D., invece, è tutto l’inverso: “porta” è scritto al singolare e “giusti” al plurale. Il punto di transito è uno solo, ciò che conta è l’insieme delle Mitzwot: ha diritto alla ricompensa solo colui che si è dato da fare per compierle tutte.
Finiamo di leggere in questi Shabbatot che precedono il mese di Nissan la costruzione del Mishkan nel deserto. Nel Bet ha-Miqdash c’erano tredici porte, ma una in particolare ci interessa: la porta di Nicanore, collocata in cima ai quindici gradini che segnavano il passaggio dalla cosiddetta Corte delle Donne all’area dove si trovava l’Altare. Racconta il Talmud (Yomà 38a) che Nicanore si era recato fino ad Alessandria d’Egitto per portare le ante di questa porta a Yerushalaim, ma una tempesta in mare aveva indotto i marinai a gettarne una in mare per alleggerire il peso della nave. La tempesta, peraltro, non si placò e quando i marinai minacciarono di gettare in acqua anche la seconda, Nicanore si oppose. La strinse a sé e disse: «Se buttate in mare l’anta, buttate in mare anche me». Miracolosamente le acque si calmarono e per tutto il resto del viaggio Nicanore si dispiacque della perdita della prima. Ma quando la nave finalmente attraccò al porto di Acco… ecco che dalle onde riapparve anche la prima anta. In ricordo del miracolo, mentre tutte le altre porte del Tempio furono a un certo momento dorate, la porta di Nicanore fu lasciata del suo materiale originario: legno di cipresso ricoperto di rame (Mishnah Yomà 3, 10; Middot 1, 4; 2,3).
La porta di Nicanore era provvista di due portoncini laterali, posti rispettivamente a nord e a sud dell’ingresso principale. Il portoncino meridionale non veniva mai aperto: «Nessun uomo l’avrebbe potuto varcare, perché esso era riservato a H. D. d’Israel e dunque doveva rimanere chiuso» (Yechezqel 44, 2; Mishnah Tamid 1, 7; Middot 2, 6). Secondo il commento di R. Moshe Cases, Rabbino a Mantova alla fine del Cinquecento, la chiusura permanente stava a insegnare che le porte aperte servono a consentire il passaggio degli esseri umani, mentre il S.B. non ne ha necessità: Egli avrebbe comunque varcato il transito sebbene fosse chiuso.
L’errata convinzione delle religioni idolatriche – scrive Shimshon Refael Hirsch – era che ogni uomo può dotarsi di un dio, che può consistere in un’immagine, un oggetto, un’istituzione, persino un altro essere umano elevandolo al suo più alto ideale e pensare che ciò che egli si è scelto per il suo culto sia riconosciuto da D. e investito a sua volta di poteri divini, tale da guidare il suo futuro. Sono queste le illusioni che da tempo immemorabile dominano il mondo non ebraico. Nella concezione ebraica, invece, l’uomo non può farsi delle divinità. Egli deve invece subordinare a D. tutte le sue scelte e le sue attività: insomma, lungi dal cercare di influenzare D., deve influire su se stesso. Deve preoccuparsi non di quale sarà la sua sorte, ma quali sono le sue azioni, perché il suo comportamento è l’unica cosa che potrà avere influenza sul suo destino. Lungi dall’avere una natura fisica D. è la personalità più assoluta, libera nella volontà e onnipotente nelle scelte, dinanzi alla quale l’uomo è chiamato a rinunciare consapevolmente alla propria libera scelta se desidera che il suo successo e la sua felicità rientrino nella Divina direzione del mondo. Qualsiasi soggettività su questo punto è paganesimo e idolatria. Pensare che l’uomo sia in grado di esercitare, in base al suo desiderio soggettivo un controllo sulla programmazione del futuro, in pratica, sulla Volontà Divina è un’illusione.
Quando noi Ebrei apriamo la porta? Alla fine del Seder di Pesach, prima di cantare i versetti dell’Hallèl. E quali versetti invece pronunciamo mentre apriamo la porta? «Riversa la Tua ira sul popoli che non Ti hanno riconosciuto e sui regni che non hanno invocato il Tuo Nome, poiché hanno divorato Ya’aqov e hanno distrutto il Suo Tempio» (cfr. Yirmeyahu 10, 25). Chi ha distrutto le porte del Bet ha-Miqdash? Gli idolatri…
Rav Alberto Somekh