LA POLEMICA – Emanuele Calò: Di élite e pluralismo
Anthony Kronman (già Dean della Yale Law School, che conobbi quando partecipai a un dibattito romano su Law and Literature) scrisse che «nella nostra democrazia è essenziale preservare qualche isola di spirito aristocratico, sia per il loro bene, per via della rarità e bellezza di ciò che proteggono, sia per il bene più vasto della cultura democratica stessa». Quando Kronman asserisce che «è importante conservare un senso delle proporzioni» intende dire che per combattere un singolo aspetto si distrugge l’intera impalcatura. Non è un caso che il titolo del saggio di Kronman sia L’assalto all’eccellenza americana, rendendo lecita l’ipotesi che ciò che talvolta si intende combattere non sia tanto l’ingiustizia quanto il merito. Kronman tratta della tensione fra lealtà democratica (costituita dall’eguaglianza) e lealtà aristocratica, per la quale alcuni modi di vivere sarebbero migliori degli altri; al riguardo, vedi Anthony Kronman, The assault on American Excellence, Free Press, N.Y., 2019.
Kronman richiama Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835 – 1840, il quale così spiegava: «Ma, indipendentemente da questo motivo, ce ne sono molti altri che, in tutti i tempi, di solito porteranno gli uomini a preferire l’uguaglianza alla libertà. Gli uomini, quindi, non apprezzano l’uguaglianza solo perché gli sta a cuore; credono che debba durare per sempre. La libertà politica può, nei suoi eccessi, compromettere la tranquillità, il patrimonio».
La contrapposizione fra eguaglianza e libertà, poi, conduce all’appiattimento del merito, il quale merito è una delle tante parti della nostra Costituzione (artt. 34, 59 e 106) che non fa comodo richiamare.
Ernesto Galli della Loggia ci ricorda (Corriere della Sera, 12 marzo 2025) che «le élite hanno l’obbligo assoluto di non chiudersi in se stesse: di restare cioè aperte a nuovi accessi…». Peccato che quelli che, a torto o a ragione, considerano di essere le élite, ebrei e non ebrei, quando sono invitati a dibattere, non rispondono, dando ragione a Galli della Loggia: «…questa Italia che si vuole progressista ha da sempre l’abitudine di rifiutare ogni dibattito, ogni discussione, negando la qualità di interlocutore a chi non la pensa come lei, definendolo il più delle volte reazionario, se non fascista, e restando tutta giuliva da sola a cullarsi nelle sue certezze».
Mi è capitato di apprendere su Il Foglio di una protesta circa l’asserita inesistenza di un pluralismo di posizioni in seno alle comunità ebraiche nei riguardi del conflitto mediorientale. Confesso che il riferimento alle Comunità ebraiche, che sono apolitiche e che in quanto tali non possono essere trascinate nel dibattito, mi lascia perplesso, soprattutto perché manca un chiarimento purchessia sull’oggetto del contendere. Sennonché, in tutti questi casi, gli ospiti vezzeggiati dalla grande editoria e dai mass media (i quali tendono ad escludere sistematicamente chi difende Israele) non sembrerebbero avere alcuna intenzione di dibattere con chi sostiene una posizione differente ed è capace di sostenerla. Si tratta della stessa conclusione cui addiviene Galli della Loggia, forse confortata non soltanto da posizioni, diciamo, teoriche, bensì anche dal dato empirico. Tant’è che non mi sono meravigliato quando, chi lamenta la mancanza di pluralismo, presenta un libro senza presentare al contempo dei contraddittori. Va benissimo, purché poi non ci si dolga del mancato pluralismo.
Emanuele Calò