MAESTRI – Pesach: il giorno e la notte, l’amaro e il dolce

Nella preghiera del mattino si dice: «Benedetto Tu H…. che forgi la luce e crei il buio» e in quella serale: «… che avvicendi la luce davanti al buio e il buio davanti alla luce». È strano che ogni volta nominiamo anche il dono opposto invece di ringraziare solo per il beneficio del momento! Ma così ci insegna Rabbà bar ‘Ullà nel Talmud: «Si deve menzionare anche il dono del giorno di notte e il dono della notte di giorno» (Berakhot 12b). Una prima spiegazione risiede nel fatto che esiste agli antipodi un’altra terra che beneficia della luce quando da noi è notte e viceversa. Già nello Zohar ciò è noto, alcuni secoli prima della scoperta dell’America (P. Wayqrà, 10a).
Ma esiste un’altra motivazione più profonda. In tutte le lingue buio è sinonimo di male (si pensi al detto “tempi bui”), mentre luce è sinonimo di bene. Ciò ci rimanda a un versetto della Torah in cui il Faraone ci rivela le sue credenze. Il re d’Egitto «disse loro (a Moshe e Aharon): … guardate che il Male è davanti a voi!» (Shemot 10, 10). Per R. ‘Azaryah Picho (Venezia, sec. XVII) il Faraone era convinto che il D. degli Ebrei fosse un dio del male, in opposizione a un’altra divinità preposta al bene.
Tale Dio maligno ora perseguitava gli Egiziani, ma una volta distrutti questi se la sarebbe presa anche con gli Ebrei e il Faraone si proponeva di proteggerli trattenendoli e così sottraendoli, per quanto riteneva nelle sue forze, all’influenza nefasta di questa Divinità. Ovviamente il Faraone si sbagliava: esiste un unico D. che amministra il Bene e il Male a seconda di come le persone si comportano.
Questo è il messaggio che pone la liberazione degli Ebrei dall’Egitto e la contestuale punizione degli Egiziani malvagi a centro e fondamento della nostra fede. Noi ribadiamo tale messaggio due volte al giorno quando, mattina e sera, affermiamo nella Tefillah che D. è fautore tanto dell’avvento del giorno, il bene, che della notte, simbolo di male.
Ma oltre che il Faraone, Moshe doveva anche persuadere il suo stesso popolo dell’esistenza di una Divina Provvidenza. In quest’ottica preferiamo parlare dell’alternanza di due attributi del S.B.: la middat ha-din, il Suo rigore, e la middat ha-rachamim, ovvero la Sua bontà. Durante il Seder di Pesach prima si intinge un cibo dolce nell’amaro (il sedano nell’acqua salata) e poi si intinge l’erba amara nel dolce (i maròr nel charòsset, impasto di frutta). In questo modo ci ricordiamo che le cose buone (rachamim) non durano in eterno, ma lasciano il posto a momenti bui in cui sembra prevalere il din; d’altronde anche i rigori prima o ploi cessano a favore dei momenti buoni. Il Ben Ish Chay di Baghdad indossava al dito un anello su cui era scritto: «Anche questo passa». Nelle disgrazie lo guardava e si consolava; d’altronde, nei momenti buoni si ammoniva che non doveva insuperbirsi per conseguenza, perché neanche questi erano destinati a durare.
È sintomatico che dei due intingoli solo il secondo è di Mitzwah. È scritto infatti: «E mangeranno la carne (dell’agnello pasquale) in questa notte arrostita sul fuoco, insieme a azzime (matzot) e erbe amare (maròr) (Shemot 12, 8). La Torah ci insegna che il dolce tempera l’amaro e non viceversa! Basta saper attendere e la redenzione si compirà per mano del S.B.

Rav Alberto Somekh