MILANO – Memoriale della Shoah e Cdec, un laboratorio per dare voce ai detenuti

Un detenuto ha scelto un orologio per parlare di sé: un simbolo del tempo da non sprecare, anche all’interno del carcere. Un altro ha indicato le sue scarpe, le stesse con cui ha camminato fuori, per la città. C’è chi ha parlato di un tatuaggio, chi degli occhiali, chi di una fascia per i capelli o di un braccialetto legato a una persona cara. La condivisione di un oggetto personale è stata una delle prime attività del laboratorio di scrittura “San Vittore: esperienze di ieri, voci di oggi”, promosso dal Memoriale della Shoah di Milano e Fondazione Cdec.
Un modo, sottolinea a Pagine Ebraiche Bianca Ambrosio della Fondazione Cdec, per far capire ai partecipanti, detenuti e detenute del carcere milanese, il valore degli oggetti e della memoria, e di come ciò che ci appartiene possa diventare racconto, testimonianza, storia. «Volevamo farli riflettere sul significato di conservare», prosegue Ambrosio. «Una lettera, un oggetto, un gesto: tutto può diventare parte di un archivio. E un archivio non è solo passato, è uno strumento per capire il presente e dare senso all’esperienza».
Il laboratorio si inserisce nelle attività per l’ottantesimo anniversario della Liberazione e sarà presentato ufficialmente questa sera, martedì 22 aprile, al Memoriale, in un incontro pubblico con alcuni partecipanti e i promotori del progetto.
«Non è la prima volta che il Memoriale lavora con le carceri», sottolinea Marco Vigevani, coordinatore delle iniziative culturali del Memoriale e direttore del progetto. «Già a Bollate abbiamo avviato percorsi simili, ma qui volevamo qualcosa di più articolato. Inizialmente pensavamo al 25 aprile come momento simbolico, poi abbiamo deciso di costruire un percorso lungo, che duri tutto l’anno».

Il materiale di archivio del Cdec e il metodo storico
Al centro del laboratorio ci sono le fonti dell’archivio della Fondazione Cdec: lettere, trascrizioni, testimonianze raccolte tra il 1943 e il 1945. «Abbiamo selezionato materiali che raccontano l’esperienza della detenzione a San Vittore durante il nazifascismo», spiega Laura Brazzo, responsabile dell’archivio e vicedirettrice del Cdec. «Documenti di ebrei e non ebrei, partigiani, antifascisti. Lettere come quelle di Fausto Levi, che scriveva ai familiari senza sapere che ne sarebbe stato di lui. Un’incertezza in cui i detenuti di oggi possono trovare dei legami».
Il laboratorio ha già preso il via con incontri introduttivi e momenti di confronto. In uno di questi è intervenuto lo storico David Bidussa, per offrire un inquadramento sul periodo fascista. «Le domande erano le stesse che sento anche nelle scuole», racconta. «Perché una dittatura dura vent’anni? Ha fatto anche delle cose buone? Che cosa ci manca oggi?». Ma l’atmosfera, spiega, era diversa: «C’era una grande emotività. Le domande non erano poste come curiosità sul passato, ma guardando alla propria esperienza, al loro vissuto quotidiano. E c’era un grande desiderio di ragionare». Per questo, prosegue lo storico, ha evitato di fare un elenco di date, ma ha cercato di far riflettere i detenuti su come si costruisca la comprensione storica, citando una delle lezioni dello storico britannico E.H. Carr, dedicata al concetto di causa. Il racconto è semplice: un uomo esce di casa per comprare le sigarette, attraversa una strada poco illuminata, viene investito da un’auto guidata da qualcuno che ha bevuto troppo e ha un fanale rotto. Di chi è la colpa? Carr spiega che non esiste una sola causa: tutto dipende da quale aspetto si sceglie di mettere a fuoco. Se vuoi fare una campagna contro il fumo, dirai che è morto perché era un accanito fumatore. Se vuoi puntare il dito contro l’amministrazione pubblica, evidenzierai la scarsa illuminazione. Se invece vuoi ragionare sulla sicurezza stradale, parlerai dell’automobilista ubriaco. Ogni causa è plausibile, ma ognuna racconta una storia diversa.
«Questo li ha colpiti», sottolinea Bidussa, «perché riguarda anche loro». Il modo in cui si spiega un fatto, nella storia come nella vita, «dipende dalle domande che ci si pone, da ciò che si decide di vedere e da ciò che si sceglie di non vedere. Un esercizio che parla di responsabilità, contesto, interpretazione, e che può aiutare anche a rileggere il proprio percorso personale».
Da queste riflessioni si entra ora nella fase centrale del progetto. «Portiamo testimonianze scritte, ma anche fotografie, documenti biografici, ricostruzioni del contesto», continua Ambrosio. «Lavoriamo su temi come il rapporto con l’esterno, la memoria, il tempo, e da lì li invitiamo a costruire nuove narrazioni. Il passato serve da strumento per leggere l’oggi. Non fare confronti con il periodo nazifascista, quello è impossibile, ma per aprire riflessione e capire».

Le carceri e il ruolo della cultura
Il laboratorio si svolge in due sezioni del carcere: una femminile, con la presenza di una decina di donne, e una maschile, con la partecipazione di circa venti persone e il coinvolgimento della redazione di “Oblò”, il periodico curato dai detenuti del reparto La Nave di San Vittore. Alcuni detenuti scrivono già regolarmente e stanno ora riflettendo sul tema dell’indifferenza. Il progetto è in divenire: «Non sappiamo ancora quale sarà il prodotto finale», sottolinea Ambrosio. «Ma l’idea è che queste voci escano, che si sentano anche fuori dal carcere».
Per Vigevani, tutto questo ha una ricaduta concreta. «Le attività culturali in carcere, se fatte bene, funzionano. Abbassano la recidiva in modo drastico. La scrittura e la lettura sono strumenti veri, reali, per immaginare una possibilità diversa. Ma serve investirci, crederci. Altrimenti il carcere resta solo punizione. Noi, nel nostro piccolo, stiamo cercando di costruire altro».
Un intento condiviso anche da Elisabetta Palù, direttrice reggente della Casa Circondariale di San Vittore: «Il carcere è spesso un luogo invisibile agli occhi della società. I detenuti sono persone di cui si parla poco, la cui voce raramente arriva oltre le mura. Il rischio è che vengano ridotti al loro reato, cancellati come individui. Con questo progetto proviamo a contrastare quell’indifferenza, offrendo ai partecipanti uno spazio in cui dare valore alla propria esperienza attraverso la narrazione».

Daniel Reichel