LA RIFLESSIONE – Renzo Ventura: Il conclave e quell’inquietudine antica

Morto un papa se ne fa un altro.
Il detto popolare sta a significare che nessuno è indispensabile. Tutti sono sostituibili: i faraoni, gli imperatori e anche i papi. Ma quali sentimenti e, forse, timori, provoca negli ebrei un avvenimento come la scomparsa di un papa che, con i suoi insegnamenti e giudizi, determina il pensiero di masse oceaniche di individui?
Ecco allora perché in questi giorni, saputo del decesso del papa, mi sono posto tutte quelle domande che a Firenze, ai tempi del ghetto, si ponevano i nostri nonni: come è stato per noi questo papa, come sarà per “noi” quello nuovo, sarà peggio, sarà meglio?
Può sembrare strano che un ebreo si ponga queste domande, soprattutto considerando che il papa è il capo di un’altra religione. Ma non sono domande accademiche, sono domande improntate alla grande attenzione per i movimenti della chiesa, e sono domande, ancora dopo secoli, basate sulla paura. Pochi decenni sono passati dalle accuse di deicidio, dall’antisemitismo della chiesa, dalla cattolica Spagna ai tempi nostri. È dunque impensabile che l’ebreo si sia totalmente dimenticato del dolore suo e di quello dei propri avi ed abbia rimosso le sofferenze mentali e psichiche cui la chiesa ha sottoposto il popolo dei nostri cari, così ancora vicini a noi, violentati sotto ogni profilo fisico e psichico.
E allora è umano e comprensibile che ci siano giorni in cui la mente dell’ebreo è ancora più impegnata nella disamina di ogni piccolo particolare che in meno di un secondo determina il ragionare dell’opinione pubblica. E chi meglio di un papa, condottiero di milioni di seguaci, può con una sola parola spostare migliaia di giudizi?
In questo lungo periodo il confine tra antisemitismo e antisraelismo si è assottigliato, quasi scomparso.
Questo ha determinato una confusione totale tra i soggetti sensibili. Ed è così che basta una parola papale di “genocidio” a colpire tutto il popolo ebraico e a renderlo responsabile di una terribile macchia nella sua storia, anche se giuridicamente il fatto non sussiste. Ma per riprendersi dall’accusa ci vuole il suo tempo: il male ormai è fatto.
E ancora in questi giorni di dolore per tantissimi nel mondo, nell’aspettarsi un futuro migliore, gli ebrei tornano a ripensare a quella kefiah messa addosso a Gesù nel presepe, col papa in adorazione davanti, con tutto quello che ne consegue. Come l’altra kefiah indossata da un cardinale a Betlemme nei giorni di Natale, il cui significato non può essere che pieno di incognite negative.
Come può sentirsi un ebreo di fatto accusato di possibile genocidio? Come può ascoltare il capo della chiesa cattolica che dice che Israele mitraglia (apposta?) i bambini palestinesi, senza stare male?
Ogni frase, ogni analisi, ogni giudizio, risuona nella mente nell’ora della morte di Papa Francesco.
Come tutti i papi ha segnato la storia e come tutti i papi in modo diverso ha fatto la politica della chiesa. Nella testa di un ebreo, estraneo alle dinamiche vaticane, si accende sempre di più la speranza che il nuovo papa non torni indietro dalla linea del concilio vaticano secondo e dalle encicliche conseguenti, facilitando il dialogo con l’ebraismo.
Può sembrare strano, ma per un ebreo è più importante la figura del papa di quella del presidente degli Stati Uniti.
E ciò provoca incertezza e smarrimento.

Renzo Ventura