LA POLEMICA – Emanuele Calò: Dalla Francia con errore

Il 14 febbraio 2025, presso il Centro Culturale francese, Pascal Boniface, Direttore dell’Iris (Institut de relations internationales et stratégiques) ha presentato il suo libro Israël-Palestine, une guerre sans limites? Èditions Eyrolles, Paris, 2025.
L’ho letto con l’attenzione che merita. A pagina 109 si critica l’evacuazione unilaterale da Gaza nel 2005. La critica è stimolante, ma sarebbe stato opportuno soggiungere che in un summit, tenutosi a Sharm al-Sheikh l’8 febbraio 2005, il piano di ritiro è stato discusso e approvato dai rappresentanti dell’OLP, dell’Egitto e della Giordania. Inoltre, quando si chiede che Israele cessi l’occupazione della Cisgiordania è implicito che si chiede un ritiro unilaterale, perché altrimenti si dovrebbe invitare anche la parte palestinese a trattare. Si consideri, anche, che il Presidente del Consiglio UE aveva elogiato l’iniziativa israeliana. Come accennato, se è errato ritirarsi in modo unilaterale, vuol dire che Israele fa bene a non ritirarsi unilateralmente dalla Cisgiordania.
A p. 135 si dice che bisogna far pressione su Israele per arrivare alla pace, ma non pensa che occorra fare altrettanto sulla parte palestinese; evidentemente la ritiene irenista a oltranza. Anche qualche voce domestica sostiene questa posizione, perché considera che tutte le autocrazie della zona (non vi è nessuna democrazia) siano paladine della pace, mentre la responsabilità del conflitto ricadrebbe su Israele, che oltre ad aver ceduto il Sinai all’Egitto, propose a più riprese di restituire tutta la Cisgiordania. Ad esempio, in un’intervista ad una personalità italiana le cui giornate durano 72 ore, lessi che il conflitto di Gaza si risolverebbe mediante le pressioni americane e con la presa di coscienza del popolo israeliano. Evidentemente, Israele ha a che fare con vicini che sono dei noti galantuomini, che il destino cinico e baro qualifica ingiustamente come terroristi, mentre gli israeliani, non essendo all’altezza, dovrebbero: a) essere redarguiti dagli americani e b) sottoporsi a sedute psicoanalitiche per soggetti riottosi. Bello vedere come Boniface non sia da solo.
A p. 173 l’autore propone una soluzione del conflitto, che essendo uguale alle proposte da Ehud Barak ed Ehud Olmert, rifiutate dalla parte palestinese, non si vede come possa andare incontro a un diverso destino.

Boniface scrive che «per la destra radicale israeliana i palestinesi non esistono»; potremmo rammentare che, per gli islamisti radicali gli ebrei debbono morire: non direi che gli attentati in tutta Europa siano opera dei sionisti. L’autore scrive che «per gli ebrei il sionismo è un movimento di liberazione nazionale, per le popolazioni arabe della Palestina il sionismo è vissuto come un progetto coloniale». Non si è mai visto una colonia senza una madrepatria. Inoltre, per molti ebrei il sionismo non è un movimento di liberazione nazionale e per molti arabi il sionismo non è un progetto coloniale. Scrivere «gli ebrei» e «le popolazioni arabe» è la solita generalizzazione che dovrebbe essere estranea a uno studioso. Il testo e lo spirito degli Accordi di Oslo dovrebbero essere d’ostacolo a tali generalizzazioni.

L’autore rileva che «sotto l’Impero ottomano gli ebrei stavano bene». Eppure, Bernard Lewis scrisse che «il ruolo ebraico nelle usanze ottomane diede quindi agli ebrei un certo vantaggio e permise a un piccolo ma significativo numero di acquisire ricchezza e il tipo di potere che la ricchezza può dare. Ma sia la ricchezza che il potere sono sempre stati precari, e di tanto in tanto sentiamo parlare della disastrosa caduta di questo o quell’alto dignitario ebreo. Questo di solito significava la spoliazione e la morte della persona interessata, e spesso anche dei suoi associati e dipendenti» (The Jews of Islam, Princeton University Press, New Jersey, 1984, p. 132 ss.).

Inoltre, sul New York Tribune del 15 aprile 1854, Karl Marx scriveva che «la popolazione di Gerusalemme conta 15.500 anime, di cui 4000 musulmani e 8000 ebrei. I musulmani, un quarto del totale, (turchi, arabi, e mori) sono, chiaramente, i padroni in tutto e per tutto, in quanto non sono coinvolti dalla debolezza del loro governo in Costantinopoli. Nulla può eguagliare la miseria e le sofferenze degli ebrei di Gerusalemme, che vivono nel quartiere più lurido della città, detto hareth-el-yahoud, nell’area di sporcizia fra Zion e Moriah, dove si trovano le sinagoghe – oggetto costante dell’oppressione e dell’intolleranza musulmana, insultati dai greci, perseguitati dai latini, vivendo soltanto del poco che mandano i loro fratelli europei. Gli ebrei, tuttavia, non sono nativi, ma di Paesi diversi e lontani, e sono stati attratti da Gerusalemme soltanto dal desiderio di abitare la valle di Giosafat per morire nello stesso posto dove si attende la redenzione. Per rendere questi ebrei più miserabili, l’Inghilterra e la Prussia hanno nominato, nel 1840, un vescovo anglicano di Gerusalemme il cui scopo è la loro conversione». Mal si concilia la visione di Marx della derelizione di questi ebrei col ruolo che aveva attribuito al popolo ebraico di simbiosi col capitalismo.

Boniface asserisce che «i problemi con gli arabi sono iniziati fra le due guerre mondiali con l’aumento della popolazione ebraica». Sennonché, l’ostilità nei riguardi dell’immigrazione ebraica fece sì che la Gran Bretagna chiudesse le porte agli ebrei europei, mandandoli nelle camere a gas.

L’autore soggiunge che «il progetto di creazione di uno Stato ebraico è stato vissuto dagli arabi come un mezzo degli europei di far pagare loro i crimini degli stessi europei». L’affermazione è priva di senso, perché implica che prima dell’Olocausto il progetto di creazione di uno Stato ebraico fosse popolarissima fra gli arabi. Non si dice che il Muftì di Gerusalemme Haj Amin Al Hussainy fu un alleato di Hitler e Mussolini. Non si spende una parola per dire che la creazione dello Stato d’Israele, approvata con la Risoluzione 181/1947, fu osteggiata dai Paesi arabi che invasero il nuovo Stato. Boniface scrive che vi è stata una guerra, guardandosi bene dal dire chi fossero gli aggressori. Niente paura: alcuni testi scolastici nostrani gli somigliano come una goccia d’acqua a un’altra.

Boniface menziona la creazione dell’OLP nel 1964, tacendo sul fatto che la Carta fondativa esclude qualsiasi interesse su Cisgiordania e Gaza. Eppure, lì aveva un’occasione ghiotta per elaborare delle riflessioni.

A p. 110, Boniface scrive che gli occidentali non riconoscono la vittoria elettorale di Hamas, considerandolo un movimento terrorista. Sennonché, non sono genericamente «gli Occidentali» a sostenerlo, bensì l’Unione europea, col Regolamento di esecuzione (UE) 2025/206 del Consiglio del 30 gennaio 2025 che attua l’articolo 2, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2580/2001 relativo a misure restrittive specifiche, contro determinate persone e entità, destinate a combattere il terrorismo.

Il libro di Boniface si inserisce sulla scia di visioni del conflitto arabo – israeliano contrassegnate da salti logici, omissioni ed errori. Ormai, se non è la regola, poco ci manca. La narrazione che ne consegue è inattendibile per via della vistosa deviazione dal metodo scientifico. Su FB Boniface scrisse: «Arrivé à Rome. Conférence débat librairie Stendhal demain». Non direi che vi sia stato un vero dibattito; alla presentazione, gli ho fatto presente che nel suo libro vi erano delle lacune e degli errori, e gliene ho porto un sunto. Si è levato qualche mormorio, ma nessuno mi ha chiesto alcunché, e non ne sono sorpreso. Il contributo migliore alla pace consisterebbe nell’informare in modo esauriente ed equilibrato. Talvolta, questa opinione rischia di essere isolata

Emanuele Calò