OSTAGGI – Daniel Oz e la chitarra riposta per sempre

“Scrivi una lettera a te stesso nel futuro”: un tema classico, quasi un rito di passaggio affidato dagli insegnanti ai propri studenti. Anche Oz Daniel, nel suo liceo di Kfar Saba, lo aveva affrontato. «Spero che tu stia spopolando sui palchi in Israele e all’estero, e che tu sia rimasto fedele ai tuoi principi», scriveva l’allora adolescente Oz.
Il suo sogno era quello di affermarsi nel mondo della musica. Aveva iniziato a suonare la chitarra a nove anni. «Si esercitava per ore, fino a ferirsi le dita. Non si fermava finché non era soddisfatto», ha ricordato la madre, Merav.
Aveva scelto il liceo Galili proprio per studiare musica, e il rock era il genere che sentiva più vicino. Suonava di tutto, ma erano le distorsioni, gli assoli e l’energia delle chitarre elettriche ad accenderlo davvero. «Era determinato, appassionato, sensibile», hanno raccontato compagni e insegnanti. A scuola si distingueva per la sua gentilezza: ogni mattina, entrando in aula, si accertava che nessuno avesse bisogno di aiuto.
Quando arrivò il momento di decidere il suo futuro, Oz avrebbe potuto intraprendere la carriera militare come musicista, un’opzione riservata ai più talentuosi. Ma scelse di arruolarsi nel corpo corazzato dell’esercito. «La musica può aspettare», aveva affermato. Voleva servire il Paese in prima linea, ed era fiero di quella scelta, ha raccontato il padre Amir.
Il 5 ottobre 2023, due giorni prima dell’attacco, Oz aveva invitato Amir nella sua stanza per bere qualcosa insieme. Un piccolo brindisi tra padre e figlio. «Mi aveva sorpreso con quel gesto», ha sottolineato Merav in un’intervista a Haaretz. Ripensandoci, sembrava un addio. «La mattina del 6 ottobre Oz non sembrava lui. Pensavo fosse solo triste di tornare alla base, o nervoso per l’imminente corso da comandante. Ma forse aveva intuito qualcosa».
Il 7 ottobre Oz era in servizio alla base militare tra i kibbutz Nir Oz e Nirim, nei pressi del confine con la Striscia di Gaza. Quando sono iniziati i razzi, i genitori hanno cercato di contattarlo via WhatsApp. I primi messaggi sono stati ricevuti, poi il silenzio. Poco dopo, in televisione, Merav ha visto le immagini di un carro armato in fiamme. Il numero inciso sulla fiancata era lo stesso di quello del mezzo di Oz. «Mio marito cercava di rassicurarmi, ma io sapevo che era il suo».
Per ore, i genitori hanno brancolato nel buio. Poi, nel cuore della notte, qualcuno ha bussato alla porta. Per una famiglia israeliana, in tempo di guerra, quel suono è un presagio sinistro: due ufficiali hanno comunicato che Oz risultava disperso. Qualche ora dopo, si è parlato di un possibile rapimento. «Abbiamo quasi tirato un sospiro di sollievo», ha confessato Merav. «Pensavamo fosse vivo».
Per 142 giorni hanno sperato. Poi l’esercito è tornato a bussare: Oz era stato ucciso il 7 ottobre. In un video ritrovato, lo si vede uscire dal carro armato in fiamme e lottare con un terrorista per strappargli una granata. Poi lo sparo. Una barella intrisa del suo sangue e il giubbotto di un altro soldato sono tutto ciò che è stato restituito alla famiglia. Il suo corpo è ancora trattenuto a Gaza.
I suoi genitori chiedono da mesi un cessate il fuoco, un accordo, qualsiasi cosa possa riportare a casa gli ostaggi vivi e impedire che Oz — e con lui gli altri rapiti uccisi — scompaia per sempre. «I morti hanno diritto a essere sepolti», ha ribadito Merav. «Una società che desidera la vita ha il dovere di restituirli».
Nel Giorno della Memoria dei caduti israeliani, Yom HaZikaron, Merav ha affidato il suo dolore a una lettera pubblicata su Israel Hayom: «All’inizio credevamo che Oz sarebbe tornato. Lo immaginavo stanco, segnato, ma vivo. Sentivo il suo abbraccio, la sua voce che mi chiamava “mamma”. Poi è arrivata la notizia che nessun genitore dovrebbe mai ricevere».
E ancora: «Oz ha dato tutto per questo Paese. Ora è il Paese che deve fare tutto per riportarlo a casa. Perché un patto non si spezza. E perché chi ha amato così tanto la vita non merita di svanire nell’ombra».

d.r.