LA RIFLESSIONE – David Sorani: Se non è pregiudizio cos’è?

Come notava con grande precisione Elena Loewenthal su La Stampa del 7 maggio scorso, è molto difficile oggi essere ebrei della Diaspora: in un mondo che non analizza situazioni e problemi ma tende a liquidarli in modo manicheo assegnando ruoli definitivi di “perseguitati” o di “persecutori”, dall’opinione pubblica siamo ormai tutti inquadrati – in quanto inscindibilmente vincolati a Israele – nella schiera degli oppressori. A meno che non ci dissociamo nettamente dalle politiche del governo israeliano scagliandoci a nostra volta contro quel “demonio” di Netanyahu e le sue “scelleratezze”; cosa che purtroppo, come abbiamo visto di recente, alcuni di noi fanno anche pubblicamente per distinguersi da chi non vuole prendere le distanze rispetto a un pezzo importante di sé o semplicemente non può superare l’inquietudine del presente lanciando dall’esterno facili accuse. Di fatto, nell’opinione pubblica oggi prevalente nessuno o quasi riesce ad andare al di là di giudizi pietistici nei confronti delle cosiddette “vittime”, a spingersi oltre la visione superficiale e mitizzata che dipinge una potenza regionale aggressiva in cerca di dominio territoriale (Israele) e un popolo oppresso e schiacciato che vuole ottenere uno Stato a cui ha diritto (i palestinesi). Nessuno o quasi pare capace di fare una analisi storica degli eventi e delle situazioni che hanno condotto alla realtà di oggi, né di leggere in profondità le motivazioni della guerra di Israele a Gaza e lo stato di cose effettivo nella Striscia.
Mai si ricorda che dal 1947 a oggi i palestinesi hanno perso tutte le occasioni possibili (alcune anche molto concrete, dopo gli accordi di Oslo del ’93 e dopo gli incontri di Camp David del 2008) di prendere in mano il proprio destino accettando compromessi per avere finalmente uno Stato. Mai si ricorda che il terrorismo è stata l’unica strada perseguita con costanza dalla dirigenza palestinese di qualsiasi colore, l’arma a cui ogni volta essa è tornata. Solo partendo da queste premesse e dalla loro esasperazione nei programmi distruttivi messi a punto da Hamas è possibile comprendere come il jihadismo palestinese sia arrivato a concepire e realizzare un massacro come quello del 7 ottobre, e come sia pronto a ripeterlo qualora se ne presentasse l’occasione. Replicando anche i rapimenti e le detenzioni di massa che tanto fruttuose sono state per la causa palestinese.
Tenere a mente tutto ciò è indispensabile per comprendere la situazione di oggi. E invece la visione collettiva ha dimenticato tutto, soffermandosi solo sui bollettini di guerra quotidiani, incapace di inquadrarli nella situazione storico-sociale complessiva e di collegarli alla cinica strategia della strumentalizzazione delle vittime (soprattutto dei bambini) messa in atto da Hamas; sempre pronta invece ad affidarsi alle sue statistiche e a moltiplicare il numero dei morti sotto le bombe israeliane.
È questa visione ossessiva e quotidianamente ripetuta a creare e incrementare il mito falsificante del genocidio a Gaza. Il guaio è che ormai lo strale è partito e non si può più trattenere.
L’immagine terrificante del genocidio in atto di fronte al silenzio del mondo (ma quale silenzio se tutti strepitano ovunque?) è lanciata e si riproduce perversamente su sé stessa. Ed ecco che il legittimo governo israeliano (miope e oltranzista finché si vuole, ma democraticamente eletto) si trasforma in potere autoritario; ecco che lo stesso Stato di Israele diviene in quanto tale uno Stato colonialista e nazista; ecco che gli ebrei e il mondo ebraico diventano i nuovi persecutori e aguzzini solo perché non si dissociano. L’accusa infamante si amplia e si diffonde, nel mondo, in Europa, in Italia. E cresce la nostra inquietudine, la nostra angoscia, la nostra umiliazione perché non riusciamo ad arrestare questa marea montante.
È la forma del nuovo antisemitismo, tanto più velenoso perché non viene accettato come tale. Anzi, chi ne viene accusato rifiuta sdegnato e offeso questa classificazione, irridendo all’ipersensibilità di chi si è permesso di adombrare un’accusa così dissacrante. Eppure, tutti noi ebrei lo avvertiamo; eppure, colpisce in modo più o meno diretto solo noi, così legati alla realtà israeliana. Cos’è se non antisemitismo?
La forma di questo nuovo rifiuto antiebraico ne è anche la sostanza, perché non qualifica negativamente l’ebreo in quanto tale, ma lo colpisce ed esclude a priori insieme a tutto ciò che “sa di Israele”.
Solo un recupero della ragione e un abbandono dell’appiattimento puramente emotivo potrebbero portare i mass media a una analisi più oggettiva e approfondita della situazione mediorientale. E solo questo processo virtuoso potrebbe farci uscire dalla folle spirale che si è innescata (quasi un’ansia patologica da “nuovo sterminio”). Dubito che ci siano la capacità e la volontà di invertire la rotta.

David Sorani