MEMORIA – Raccontare la Shoah oggi, un convegno di esperti francesi e italiani

Come si racconta, oggi, la Shoah? Quali linguaggi sono ancora in grado di restituirne il trauma, e quali invece rischiano di tradirlo, di piegarlo a una retorica rassicurante o addomesticata? A Trieste, il 15 e 16 maggio 2025 se ne è parlato nel convegno internazionale Dire, scrivere, rappresentare la Shoah, uno sguardo interdisciplinare nel XXI secolo. Due giornate che hanno visto affiancarsi approcci letterari, linguistici, giuridici e storici, accomunati dalla consapevolezza che la Memoria, oggi più che mai, esige complessità. Nelly Wolf, docente all’Université de Lille, ha aperto i lavori con una conferenza che ha imposto il tono del confronto: non più solo trasmettere, ma interrogare la trasmissione stessa. La letteratura francese della Shoah – tra récits, romanzi e inchieste – non è, secondo Wolf, un semplice contenitore di testimonianze, ma uno spazio in cui si giocano tensioni profonde tra etica, estetica e politica della memoria. Chi scrive dopo Auschwitz – anche chi non c’era – si muove in una zona carica di responsabilità: la parola è fragile ma necessaria. Lo sguardo si è spostato poi verso la scena teatrale, con Jean-Paul Dufiet (Università di Trento) che ha riflettuto sul modo in cui le parole di Adolf Hitler sono state rimesse – in voce e in corpo – a teatro. La sua analisi ha sollevato un nodo etico non secondario: è possibile rappresentare il male assoluto senza cadere nella fascinazione per il potere che esso esercita? Il teatro, ha suggerito Dufiet, può essere strumento di decostruzione, ma non è immune dal rischio della spettacolarizzazione. Ancora una volta, è l’uso della forma che fa la differenza.
A ricucire i fili tra rappresentazione e testimonianza è intervenuta Françoise Favart, docente e responsabile scientifica del convegno, con una lettura culturalmente stratificata del testimone, attraverso il film Un vivant qui passe di Claude Lanzmann. Favart ha mostrato come la figura del testimone non sia neutra bensì segnata dal tempo, dalle condizioni di ricezione, dalle attese del pubblico. Il testimone, più che un semplice sopravvissuto, è un soggetto interpretato, contestualizzato, interrogato di continuo.
La questione della parola è stata ancora approfondita da Olivia Lewi, linguista del GRHAPES (CYU Paris), che ha proposto una analisi dei racconti raccolti dal Mémorial de la Shoah. Lewi ha evidenziato i meccanismi attraverso cui i testimoni plasmano, consapevolmente o meno, la propria narrazione, dando forma al trauma. La lingua qui non è solo mezzo: è il luogo in cui il ricordo si coagula, si rompe, a volte tace. Un’eco, piuttosto che un racconto lineare. Nel pomeriggio, il convegno ha spostato la riflessione verso l’ambito giuridico, ricordando che la Shoah non è solo memoria storica o letteraria, ma anche fatto inscritto nei codici e nei processi. Mauro Barberis (Università di Trieste) ha parlato di “Olocausti e narrazioni”, mostrando come il diritto stesso sia costruito su racconti: racconti di giustizia, ma anche di potere.
La giurisprudenza che ha preso forma a Norimberga – ha sottolineato Paolo Giangaspero (Università di Trieste) – è il tentativo di attribuire razionalità a ciò che razionale non è: un male che si sottrae alle categorie e che tuttavia, per essere condannato, deve essere nominato. Nicola Muffato ha chiuso la sezione con una domanda provocatoria ma centrale: dove finisce la libertà d’espressione, e dove inizia l’incitamento all’odio? “La libertà di odiare”, ha affermato, non è un diritto, ma una distorsione del discorso democratico. In un’epoca di crescente antisemitismo, mascherato da libertà di opinione, il diritto diventa presidio fragile ma necessario.
La seconda giornata ha rimesso al centro la Storia, senza cedere alla pura cronologia: lo storico Tal Bruttmann ha aperto la mattinata con una ricostruzione lucida e documentata delle politiche antisemite della Francia collaborazionista. La sua analisi ha ribadito una verità scomoda: la macchina della persecuzione non fu solo tedesca e la complicità francese non può più essere raccontata come mera obbedienza. A seguire Daniel Palmieri, storico della Croce Rossa Internazionale, ha portato alla luce uno sguardo laterale, quello di chi avrebbe dovuto portare soccorso e che, in tempo reale, vide e registrò le persecuzioni. Le loro testimonianze sono fonti preziose, spesso trascurate, che non appartengono né alla vittima né al carnefice e Palmieri ha invitato a leggerle come tracce etiche, come registri del non detto. Il lavoro del Mémorial de la Shoah, presentato da Lior Lalieu e Marine Lesage, ha reso il senso dell’enorme archivio di voci raccolte tra il 2004 e il 2024: non un museo ma un organismo vivente, dove ogni testimonianza è una responsabilità. La questione non è solo conservare, ma come rendere fruibile e come trasmettere senza tradire. Il direttore del Cdec, Gadi Luzzatto Voghera, ha riportato l’attenzione sulla storia italiana, raccontando le persecuzioni e le deportazioni con rigore, mettendo così in discussione molte delle narrazioni consolatorie che ancora resistono nel discorso pubblico. La Memoria, ha ricordato, non è mai neutra, è un atto politico e culturale. A chiudere, l’intervento di Margherita Amatulli (Università di Urbino) sui memoriali a Drancy ha aperto un altro fronte: quello dello spazio: come si risemantizza un luogo? Come si trasforma un ex campo in paesaggio della Memoria? La risposta può essere nelle parole, nei segni e nelle assenze che diventano presenza. In conclusione, la tavola rotonda ha raccolto le tante voci, sguardi, tensioni emerse nei due giorni di lavori: non una sintesi, perché la Shoah non si chiude in una formula bensì un patto implicito. Continuare a cercare modi, linguaggi, forme per tenere viva la Memoria senza ridurla a cliché per dire, scrivere, rappresentare – e soprattutto capire – senza smettere di domandare.
a.t.