PREGIUDIZIO – L’equidistanza di chi odia

Esiste un codice – sottile, insinuante, apparentemente innocuo – che regola il linguaggio pubblico quando si parla di Israele e più in generale degli ebrei. Un codice che non si impone per brutalità o volgarità ma per raffinatezza, per quella forma di falsa neutralità che si esprime in toni pacati e parole levigate, e che per questo si rende tanto più insidiosa. È – scrive Nicole Dreyfus sulla Jüdische Allgemeine – la grammatica dell’ipocrisia, che negli ultimi mesi si è fatta sempre più fluente. Si presenta come virtù: razionalità, equilibrio, senso della misura che si nascondono dietro richiami selettivi alla giustizia e alla pace e dietro a un umanesimo di facciata. Basta però osservare con attenzione per cogliere il doppio registro: da una parte la condanna di Israele con inflessibile severità e dall’altra parte un giustificare o silenziare violenze anche più crudeli purché rivolte contro l’“oppressore designato”. Le parole perdono il loro significato originario: “proporzionalità” diventa una richiesta che Israele, e solo Israele, è tenuto a soddisfare anche di fronte a massacri di civili. “Resistenza” diventa sinonimo di terrorismo se praticata da chi gode della simpatia ideologica dell’osservatore. La retorica dell’equidistanza – “condanniamo entrambe le parti” – è forse la manifestazione più compiuta di questa dinamica perché quando una parte è il carnefice e l’altra è la vittima, parlare di “entrambe le parti” equivale a negare la realtà. E quando si arriva a giustificare anche solo implicitamente il rapimento di bambini o l’uso sistematico della tortura come arma di propaganda allora il linguaggio si trasforma in complicità. Ciò che rende l’ipocrisia ancora più efficace è il suo mascherarsi da coscienza: il tono sommesso del funzionario internazionale, la compostezza dell’accademico, la finta imparzialità del giornalista. Un “noi” apparentemente collettivo prende parola a nome dell’umanità offesa, tralasciando accuratamente l’indignazione quando le vittime non coincidono con il proprio paradigma etico. Si tratta di questione che arriva fino a quella zona opaca in cui l’antisionismo si fa pregiudizio culturale, e poi sociale, e infine antisemitismo. L’ipocrisia non si limita a distorcere i fatti: educa lo sguardo. E in quello sguardo, gli ebrei tornano a essere gli “altri”, i sospetti, i privilegiati da mettere sotto esame. In un’Europa che si dichiara tollerante ma tollera la negazione dell’identità ebraica in nome di una neutralità fittizia, l’ipocrisia diventa codice condiviso. Un codice per delegittimare, dubitare, sottintendere. A dire senza dire. Il compito di chi scrive, insegna o semplicemente esiste come ebreo non è oggi soltanto quello di informare o di spiegare. È quello, più difficile, di decifrare. Smontare la retorica elegante che cela il veleno, reclamare non un trattamento speciale ma l’evidenza di una verità spesso ignorata: che gli ebrei non sono eterni imputati né Israele è una colpa da espiare. La responsabilità, oggi, non è soltanto denunciare l’odio ma anche saper riconoscere l’ipocrisia che lo alimenta giorno dopo giorno perché anche lì si annida la forma più moderna e pervasiva di pregiudizio. Quella che si proclama amica della giustizia e smette di vedere l’umanità negli occhi degli altri.