OSTAGGI – Il comandante Asaf Hamami

Asaf Hamami aveva 41 anni, ed era il comandante della Brigata Meridionale della divisione di Gaza, uno dei ruoli più esposti e delicati all’interno delle Idf. Nato e cresciuto in una famiglia molto legata al servizio militare e alla memoria, era nipote di due caduti: suo zio Eitan, soldato della Brigata Golani morto in un’esercitazione nel 1985, e il fratello della nonna, Yair Tzabari, caduto in servizio.
Chi ha conosciuto Asaf lo descrive come un uomo rigoroso e attento, ma anche empatico e sempre presente. «Univa il comando in prima linea e dava sempre l’impressione che tutto ciò che era importante per te fosse importante anche per lui», ha ricordato un ufficiale che aveva servito al suo fianco. La madre Clara, insegnante di Bibbia in pensione, lo racconta come un uomo dal senso del dovere incrollabile. Aveva appena iniziato un nuovo lavoro e progettava di trasferirsi con la famiglia a Washington per una missione diplomatica. Ma il 7 ottobre tutto è cambiato.
Quella mattina, mentre al kibbutz Nirim si festeggiava Simchat Torah, Asaf si trovava nella vicina base militare insieme al figlio Alon, di sei anni. Alle 6:29, appresa la notizia di una breccia al confine, ha baciato il figlio sulla fronte, lo ha affidato a un’ufficiale ed è andato ad affrontare i terroristi di Hamas. Era stato il primo ad uscire, insieme a due soldati del suo comando, Tomer Ahimas e Kiril Brodski. Mentre i razzi segnavano il cielo, Hamami ha immediatamente compreso la portata dell’attacco e ha lanciato via radio un messaggio destinato a restare nella storia del paese: «Qui è il comandante. Dichiaro lo stato di guerra».
Insieme ai suoi uomini ha raggiunto il kibbutz Nirim e ha affrontato un commando della forza d’élite di Hamas, Nukhba. È stato ferito gravemente durante lo scontro. I suoi uomini hanno cercato di salvarlo: gli hanno applicato un laccio emostatico sotto il fuoco nemico, trasportandolo in un rifugio. Ogni tentativo di chiamare i soccorsi è stato inutile. Poco dopo, anche i suoi due compagni d’armi, Tomer Ahimas e Kiril Brodski, sono stati uccisi. I loro corpi, assieme a quello di Asaf, sono stati rapiti e portati a Gaza. Si è poi scoperto che i terroristi avevano la precisa indicazione di colpire Hamami: decine di infiltrati erano stati trovati con la sua fotografia in tasca, segno che il comandante della Brigata Meridionale era un obiettivo designato. Cercavano l’ufficiale più alto in grado sul campo, colui che poteva coordinare la risposta e bloccare l’attacco.
Alla famiglia inizialmente è stata notificata la sola scomparsa di Asaf, poi, dopo alcune settimane, è arrivata la conferma della sua uccisione e del rapimento della salma. Anche in assenza del corpo, i Hamami hanno deciso di celebrare un funerale al cimitero militare di Kiryat Shaul, dove sono arrivate migliaia di persone da tutto il paese. «Era sempre in prima linea. Faceva sentire ogni soldato importante, ogni dettaglio rilevante. Non trascurava nulla, ma soprattutto non trascurava nessuno», ha raccontato il maggiore Eli Zilberman, che aveva servito sotto il comando di Hamami. L’esercito non voleva lasciarlo andare: continuava ad essere promosso, raccontano i suoi compagni d’armi, ma il suo sogno era un altro: voleva diventare preside di una scuola. “Asaf ci diceva sempre di non contare sul fatto che sarebbe diventato comandante di divisione o capo di stato maggiore: voleva fare l’insegnante come sua madre”, ha ricordato il padre Ilan.
Per onorare il suo ricordo, i genitori hanno fondato in suo nome una borsa di studio in collaborazione con il Peres Academic Center, e stanno lavorando alla realizzazione di una “Casa dei riservisti” che porterà il suo nome. La struttura offrirà sostegno a chi ha servito il paese, in particolare alle militari donne. «Asaf credeva profondamente nell’educazione e nella responsabilità», ha ribadito Ilan. «Vogliamo continuare ciò che lui ha iniziato».
Sapir, la moglie, ha parlato pubblicamente solo negli ultimi mesi. «Fino ad ora, tutta l’attenzione avrebbe dovuto essere rivolta agli ostaggi vivi, ma siamo arrivati al punto in cui dobbiamo parlare degli ostaggi deceduti», ha spiegato in un’intervista a News 12. Ha scritto al presidente Usa Donald Trump, chiedendogli aiuto per riportare a casa i caduti: «Non lasciamo indietro nessuno. Questo fa parte dei nostri valori come paese», ha ribadito la moglie, rimasta sola ad accudire i tre figli, Ella, Alon e Arbel. Nel suo elogio funebre, Sapir ha ringraziato il marito per i 17 anni passati insieme: «In ogni momento, ero orgogliosa di te, come persona, come compagno, come padre, come comandante. Con te era tutto semplicemente perfetto, sempre. Grazie, amore mio, per 17 anni di amore profondo, per Ella, Alon e Arbel. Avevamo tanti sogni, alcuni li realizzerò io — e tu sarai con me. Prometto che ai tuoi figli non mancherà nulla, tranne te. Ti amerò per sempre».

d.r.