DAI GIORNALI DI OGGI – Bokertov 18 giugno 2025
L’attenzione mediatica resta monopolizzata dal conflitto tra Israele e Iran. «La battaglia ha inizio», ha tuonato nelle scorse ore l’ayatollah Ali Khamenei. E mentre Donald Trump non ha ancora chiarito se gli Usa entreranno in guerra, dalla Germania il cancelliere Friedrich Merz ha esplicitato il suo pensiero sull’offensiva israeliana, senza troppi giri di parole: «Dobbiamo ringraziare Israele. Attualmente sta facendo il lavoro sporco per conto dell’intero Occidente». È possibile un cambio di regime? «Nessuno verserebbe una lacrima se il regime venisse rovesciato, ma credo che le probabilità che ciò accada non siano elevate», dichiara l’ex capo della Cia David Petraeus in una intervista con Repubblica. «Gli iraniani hanno finanziato, armato, addestrato milizie che hanno ucciso centinaia dei nostri soldati, se non migliaia. Il problema è che l’incertezza sull’esito consiglia prudenza, questa è la fonte della mia esitazione sul cambio di regime». L’ex capo del consiglio di sicurezza nazionale israeliano Giora Eiland racconta alla Stampa che due gli obiettivi dello Stato ebraico sono due: «Primo, infliggere un danno significativo alla tecnologia militare iraniana che non possiamo distruggere. Secondo, mettere fuori uso l’industria dei missili balistici a lungo raggio. Ci servono quindici giorni in tutto. Se poi l’esito fosse la fine del regime meglio: ma non è lo scopo della guerra». Per l’ex generale di stato maggiore israeliano Yaakov Amidror, interpellato dal Foglio, «Israele emergerà dalle guerre molto più sicuro di sé e meno minacciato di prima del 7 ottobre» perché «ora tutti capiscono la forza di Israele». L’azione militare è comprensibile anche moralmente, insiste Amidror: «Israele sa che doveva fare quello che andava fatto per sopravvivere».
«Va compreso che la società israeliana è oggi molto più unita e concorde con la decisione del governo Netanyahu di attaccare l’Iran che non con la guerra contro Hamas a Gaza, specie negli ultimi mesi», spiega lo storico israeliano Benny Morris al Corriere della Sera. «Gli iraniani chiedono: perché Israele può avere l’atomica e noi no?», domanda il giornalista. «Perché noi siamo una società democratica occidentale e loro sono un regime fanatico messianico islamico». E i gruppi messianici fanatici che sostengono Netanyahu?, incalza il giornalista. «Sono piccole minoranze. Almeno per ora. Ma in Iran i fanatici hanno il controllo del bottone rosso». Da Tel Aviv, Ghila Piattelli racconta sul Foglio che «ogni cittadino in Israele in caso di emergenza deve sapere cosa fare, dove andare, e anche come resistere psicologicamente». Soltanto così si può conservare una parvenza di normalità, prosegue Piattelli, definendo tale approccio a situazioni di crisi come quella di questi giorni «il cuore della resilienza israeliana».
«Si può difendere il diritto all’esistenza di Israele, anche come necessaria garanzia della sopravvivenza degli ebrei di tutto il mondo, e criticare duramente il suo governo. Non è relativismo, è lucidità. E capacità di pensare criticamente», scrive Nathania Zevi (La Stampa). «Ma è anche una sfida. Perché il pensiero critico richiede tempo e strumenti, e la verità è che per noi è diventato difficile fare i conti col primo e maneggiare i secondi».
«Oggi più che mai serve ricordare che Israele, unico argine al fanatismo islamista, è costretto a difendersi sin dalla sua nascita perché circondato da distruttori». Lo si legge su Libero, in un’analisi intitolata “Perché non possiamo non dirci ebrei”. Per Libero, Israele «è il canarino nella miniera della civiltà, messa in pericolo dal fanatismo ostile che non ha altro orizzonte dalla distruzione, non meno che dall’indifferenza di una parte non maggioritaria ma chiassosa della cultura occidentale».
Né aderire né sabotare. È questa «la formula adottata dal Pd nei riguardi della manifestazione del 21 giugno contro il riarmo, la guerra, il genocidio e chi più ne ha più ne metta», riporta il Corriere. Hanno aderito all’iniziativa diversi gruppi propal, si legge. L’Associazione dei palestinesi d’Italia, per esempio, «che viene considerata “moderata” e che aveva censurato la piattaforma della manifestazione di San Giovanni a causa della “condanna selettiva e continua del 7 ottobre, senza contesto né comprensione della realtà dell’occupazione israeliana e della resistenza palestinese”».
«Da Parigi all’Italia, gli eventi judenfrei in cui gli ebrei vengono messi da parte», titola Il Riformista, segnalando tra le altre la storia di un giovane atleta israeliano che al Mediterranean JuJitsu Open 2025 di Ostia, dopo aver vinto una gara, ha dovuto ritirare la medaglia d’oro «dietro le quinte, di nascosto, niente inno nazionale, niente bandiera di Israele».
Libero racconta di un aggressione contro due giovani ebrei milanesi, avvicinati da tre giovani egiziani. Prima hanno subito insulti di stampo razzista e antisemita, si legge, poi sono stati picchiati e rapinati. Durante l’aggressione, «il padre dei due giovani ha chiamato le forze dell’ordine».