SALUTE – Negare il trauma del 7 ottobre fa male

Due psicologhe americane hanno definito una sofferenza spesso trascurata: la traumatic invalidation, è l’invalidazione traumatica delle emozioni degli ebrei seguite alla traumatica escalation iniziata il 7 ottobre 2023. Il termine, tratto dalla psicologia del trauma, descrive la condizione in cui chi subisce violenza o perdita viene ignorato o colpevolizzato per le proprie emozioni, spesso negate. Miri Bar‑Halpern e Jaclyn Wolfman, autrici di uno studio pubblicato sul Journal of Human Behavior in the Social Environment, descrivono come in ambito ebraico molti abbiano percepito le loro reazioni al razzismo, ai lutti e alle violenze successive al 7 ottobre non solo come illegittime, ma addirittura oggetto di biasimo o – peggio ancora – di silenzio. La loro testimonianza evidenzia casi in cui colleghi, amici o terapisti hanno fatti sentire le persone traumatizzate escluse, accusate di «reazioni esagerate» o hanno liquidato la loro sofferenza come «secondaria rispetto al trauma dei palestinesi». La forma più diffusa di invalidazione traumatica è il silenzio imbarazzato oppure la minimizzazione o esplicita negazione delle atrocità subite. Alcuni intervenuti hanno raccontato di essere stati emarginati da associazioni professionali o gruppi sociali, o di aver ricevuto messaggi a sostegno di Hamas da parte di persone che ritenevano amiche. In altri casi anche terapisti sono arrivati a sminuire il loro disagio, accentuando così ansia, sintomi depressivi e persino tratti di disturbo post traumatico da stress. Tra le testimonianze raccolte, un professionista LGBT ha raccontato di essere stato escluso da un gruppo di sostegno perché si sentiva insicuro dopo le violenze, e la facilitatrice del gruppo aveva adottato simboli propal come la keffiyeh o manifesti con slogan radicali. Secondo le autrici, dare un nome al fenomeno – traumatic invalidation – permette a chi soffre di non pensare «sto impazzendo», e molti lettori dello studio hanno espresso gratitudine: finalmente qualcuno ha riconosciuto l’esistenza di ciò che provavano. Le due psicologhe hanno individuato diverse forme che assume questa “invalidazione”: dall’ignorare apertamente le emozioni, alla critica, al biasimo, all’esclusione sociale, al messaggio implicito che quanto è successo «è politico», fino alla negazione dei fatti. Spiegano che questo tipo di risposta intensifica il trauma, ostacolandone l’elaborazione, togliendo fiducia e appoggio emotivo.

In Italia

Il tema del trauma collettivo e della necessità di una valida elaborazione emotiva è stato affrontato anche da alcuni esperti in Italia: Iris Elyakim‑Maroz, psicologa israeliana intervenuta in un convegno organizzato dalla Fondazione Einaudi nell’ottobre 2024, ha descritto la società israeliana come travolta da paura e incertezza e quanto sia urgente offrire sostegno a chi rischia disturbi da stress post traumatico. Anche secondo la scuola junghiana il trauma collettivo richiede spazi comunitari dove poter esternare le emozioni, evitando che si cristallizzino dentro causando un peggioramento dei sintomi, e un gruppo di psicoanalisti junghiani ha sottolineato come la ripetizione del racconto traumatico sia un processo necessario per integrare il trauma nella vita quotidiana, facilitando il passaggio dal passato al futuro e prevenendo forme di isolamento. Senza il supporto comunitario, si teme un aumento dei disturbi post traumatici, cosa che conferma il ruolo cruciale della socialità e dell’ascolto condiviso, su cui David Gerbi, mediatore e promotore di dialogo, ha ricordato l’importanza di separare la dimensione terapeutica da quella politica, auspicando che la psicologia possa rimanere uno spazio neutrale in cui le persone possano trovare comprensione e cura, indipendentemente dalle tensioni ideologiche.

La validazione emotiva

Bar‑Halpern, che ha vissuto l’invalidazione delle proprie esperienze da parte di colleghi critici verso Israele, invita a riconoscere che la validazione emotiva non equivale a un consenso politico, ma rappresenta il fondamento necessario per ogni dialogo autentico e per la ripresa di percorsi di cura. Le autrici propongono una serie di interventi concreti: dal riconoscimento formale del fenomeno in ambito clinico e istituzionale, alla formazione di professionisti della salute mentale capaci di accogliere la sofferenza senza minimizzarla, fino alla promozione di spazi comunitari e attività volte a rafforzare la resilienza individuale e collettiva. È un invito a costruire una rete di sostegno che superi le divisioni politiche e restituisca centralità alla dimensione umana e psicologica di una comunità ferita.

(Foto: @Roman Yanushevsky)