ISRAELE – Da Egitto e Giordania, come entrare o uscire dal paese in guerra

Con la chiusura dell’aeroporto Ben Gurion e il blocco dello spazio aereo israeliano in seguito allo scoppio della guerra con l’Iran il 13 giugno, migliaia di persone si sono ritrovate intrappolate dentro – o fuori – dai confini di Israele. In attesa della riapertura graduale prevista per il 23 giugno, con voli autorizzati e limitati a un massimo di 50 passeggeri, cittadini israeliani, turisti e residenti stranieri hanno cercato rotte alternative per lasciare il paese. Le più accessibili si sono rivelate quelle via terra. C’è chi ha attraversato Israele da nord a sud per raggiungere Eilat e superare la frontiera con l’Egitto, fino a raggiungere in van o taxi l’aeroporto di Sharm El Sheikh; chi ha invece percorso la via orientale, attraversando il valico con la Giordania per decollare da Amman. Altri ancora hanno seguito gli stessi tragitti ma in senso inverso, per rientrare nel paese. Dal 13 giugno in poi, migliaia di persone hanno sperimentato queste rotte come unica via di entrata o uscita da Israele.
Una di queste storie è quella di David (nome di fantasia), diciottenne con doppia cittadinanza italiana e israeliana, partito all’alba in van da Tel Aviv, diretto verso Eilat. Suo padre, che ha seguito a distanza il viaggio dall’Italia, lo racconta a Pagine Ebraiche: «All’inizio mio figlio era agitato, e penso sia comprensibile. Ma una volta partito, era più preoccupato all’idea di restare sotto i missili iraniani che del viaggio stesso». In circa quattro ore David è arrivato a Eilat, ha superato il confine a Taba e proseguito fino all’aeroporto di Sharm El Sheikh. Tre ore e mezza dopo era a destinazione, pronto a imbarcarsi su un volo per l’Italia. «Non si è mai sentito in pericolo, né in Israele né oltreconfine. Tutto è stato ordinato, persino semplice», spiega il padre. Durante tutto il tragitto, David è rimasto sempre connesso. «Aveva acquistato un pacchetto dati per l’Egitto, così abbiamo potuto scriverci in continuazione. Sapevo sempre dov’era». Ora si trova in Italia, da dove proseguirà le lezioni della sua scuola israeliana in modalità online. «Se il liceo dovesse riaprire, significherà che la situazione è tornata stabile e valuteremo il rientro».
Diversa, ma in parte speculare, è la storia di Oliver Bradley, cittadino tedesco residente a Berlino. Anche lui ha lasciato Israele negli ultimi giorni, scegliendo però la via orientale, attraverso la Giordania. «Io non volevo andarmene. Ma dovevo tornare a Berlino, e non potevo permettermi di restare bloccato». Il tragitto, familiare per lui, è stato lo stesso seguito trent’anni prima: Tel Aviv, Gerusalemme, Beit She’an, quindi il valico giordano e infine Amman. «Ho usato i mezzi pubblici: treno, autobus, taxi. Tutto è andato liscio. Al confine non ho trovato code. C’erano altri israeliani, qualcuno in partenza, altri in arrivo. Parlottavano tra loro in ebraico, ma con discrezione. Nessuna tensione».
Anche sul lato giordano, il passaggio è stato sereno. «Chi arriva da quella frontiera è chiaramente in transito da Israele. Ma nessuno ha mostrato ostilità. Solo normalità». Una volta ad Amman, ha passeggiato in centro senza notare simboli politici o clima teso. «Tutto sorprendentemente tranquillo».
Come il padre di David, anche Bradley mette in guardia contro i servizi definiti “vip”, spesso offerti a cifre esorbitanti. «Ho incontrato una ragazza americana che aveva pagato 800 dollari per un servizio speciale. Era ancora lì ad aspettare mentre io, che avevo preso un taxi qualunque, ero già oltre il confine».
L’esperienza di Oliver, però, va oltre il racconto pratico. È anche una riflessione sull’immagine di Israele che circola all’estero, spesso, afferma, distorta da narrazioni sensazionalistiche. «I media mostrano solo i danni. Parlano della “faccia cambiata di Tel Aviv”, ma io quella faccia non l’ho vista. È vero, i grandi caffè erano chiusi, ma la gente correva nei parchi, chiacchierava nei rifugi, qualcuno rideva. Sembrava l’ultima fase del Covid: attenzione, non panico». Secondo Bradley, la percezione del rischio è spesso maggiore fuori da Israele che all’interno. «Chi sta all’estero ha più paura. Non per ignoranza, ma perché i media amplificano le emozioni. La realtà è più complessa, fatta di sfumature».
d.r.