IRAN – Khamenei canta vittoria, il regime fa retate di ebrei

Tra dichiarazioni di facciata e repressioni interne, il regime di Teheran prova a mantenere il controllo sul paese. «Congratulazioni per la vittoria sul regime israeliano. Nonostante tutto quel clamore, nonostante tutte quelle affermazioni, il regime israeliano, sotto i colpi della Repubblica Islamica, è quasi crollato ed è stato schiacciato», ha dichiarato l’ayatollah Ali Khamenei nel suo primo discorso pubblico dal cessate il fuoco. La guida suprema parla da un bunker, non da un podio. Da settimane Khamenei è nascosto e, secondo fonti iraniane, comunica con un numero ristrettissimo di fedelissimi. Teme, spiega l’emittente Kan, un possibile tentativo israeliano di eliminarlo. Una paura che si ripercuote in tutto l’Iran in forma di arresti e repressioni contro presunti collaboratori d’Israele. E nel mirino c’è anche la comunità ebraica locale. A Shiraz e Teheran gli arresti sono già cominciati e diversi rabbanim e chazanim sono stati prelevati dalle loro case. Le accuse sono vaghe: collaborazionismo con lo stato ebraico. Da giorni, raccontano fonti locali ai media israeliani, non si hanno notizie degli ebrei in Iran. «Meglio non chiamarli», riferisce a ynet Zahava, un’israeliana originaria di Shiraz. «Siamo passati da messaggi quotidiani al silenzio assoluto. È troppo pericoloso».
Le comunicazioni sono controllate e i telefoni rimangono spenti, le app di messaggistica chiuse. In alcuni quartieri gli ebrei non escono nemmeno di casa. C’è chi ha trovato rifugio da parenti, in zone più isolate, aspettando che passi l’ondata di violenza e frustrazione del regime, colpito al cuore dalle operazioni israeliane.
Un tempo definita la «Parigi del Medio Oriente», oggi Shiraz, riporta ynet, è una città in apnea. Le autorità impongono dichiarazioni pubbliche contro il sionismo. Chi non si adegua rischia. «Ogni telefonata è un pericolo», conferma al quotidiano Noga, emigrata a New York dopo il 1979. «Chi è legato a Israele viene sorvegliato. Anche solo una chiamata può bastare per finire nella lista nera».
Le comunicazioni, quando possibili, sono in codice. «Se dicono che arriva una tempesta, sappiamo che le cose vanno male», spiega ancora Noga. «Si parla solo di matrimoni, di moda. Nulla di concreto. La paura è ovunque». Anche i più ricchi, i più integrati, non sono al sicuro. «La vita lì va bene finché non ti fai notare», prosegue Noga. «Ma appena attiri l’attenzione, nulla conta più».
L’ayatollah parla di vittoria, ma il suo potere vacilla. Le fazioni più moderate, guidate dal presidente Masoud Pazakhian, si muovono, parlando di riforme e aprendo a negoziati con gli Stati Uniti, sottolinea Kan.
Per la comunità ebraica locale la vita rimane complicata. «Per un ebreo in Iran oggi tutto è difficile: accedere all’università, trovare lavoro, costruirsi un futuro», spiega Noga. «La priorità va sempre ai figli dei religiosi o ai musulmani. Nelle aziende statali non c’è spazio, in quelle private solo se hai un partner musulmano puoi trovare un lavoro. È un sistema che esclude, in silenzio». Per lei «indipendentemente da ciò che gli ebrei sono costretti a mostrare all’esterno, da quello che so di loro, sono tutti d’accordo: questi mullah devono andare all’inferno affinché l’Iran possa tornare ai tempi dello scià, al paese amato che era un tempo».