GUERRA/2 – Sì alla tregua per riportare gli ostaggi a casa a pensare al futuro

Accanto alle posizioni più radicali come quella di Marc Mordehai Fitoussi, nel dibattito israeliano e in quello internazionale emergono voci che pur senza sottovalutare le minacce alla sicurezza, indicano nella diplomazia una strada concreta e strategica per uscire dalla crisi. Non si tratta di pacifismi ingenui ma di un approccio misurato, che parte dalla constatazione che la sola via militare, da sola, non basta. Tra coloro che sostengono questa linea c’è Yair Lapid, già ministro degli Esteri e leader del partito centrista Yesh Atid. In questi giorni, Lapid ha chiesto al capo del governo Benjamin Netanyhu di abbandonare l’ala oltranzista della sua maggioranza promttendogli l’appoggio di Yesh Atid se dirà di sì alla proposta di tregua sostenuta dal presidente Usa Donald Trump. In ambito militare e di sicurezza figure come Efraim Halevy, ex capo del Mossad, hanno dichiarato che in alcuni momenti storici Israele ha già saputo negoziare anche con nemici implacabili, come accadde con la Giordania o l’OLP. Secondo Halevy mantenere lo stato di guerra permanente, senza un orizzonte di uscita, logora le istituzioni, indebolisce l’economia e frattura il tessuto sociale. Una posizione analoga è quella sostenuta dal movimento “Commanders for Israel’s Security”, che riunisce ex generali e funzionari della difesa. La loro proposta prevede una cooperazione rafforzata con l’Autorità Palestinese, una presenza internazionale a Gaza nella fase di transizione e, nel lungo termine, la riattivazione dell’Iniziativa di pace araba. Anche qui, l’obiettivo è garantire sicurezza, ma senza cedere all’idea che l’unico mezzo sia la forza militare prolungata. Senza mai dimenticare la questione degli ostaggi: la pressione militare di questi ormai quasi 21 mesi di guerra non ha portato grandi risultati per la loro liberazione, avvenuta per i più fortunati soprattutto durante i due cessate il fuoco (la seconda metà di novembre 2023 e gennaio-marzo 2025) siglati da Israele e da Hamas dall’inizio della guerra: riportare a casa i vivi e dare sepoltura ai morti resta un imperativo morale per tutti gli israeliani, che abbiano o meno parenti e persone care prigioniere a Gaza.