ISRAELE – Parla lo psichiatra: «Riconoscere il trauma collettivo»

Demian Halpérin è medico, psichiatra, a Tel Aviv. Con il progetto SafeHeart – Lev Batuach, offre supporto psicologico a giovani e famiglie colpite dagli effetti della guerra. Nell’intervista rilasciata ad Antoine Strobel-Dahan per Tenoua il 26 giugno delinea una diagnosi netta: Israele è una società traumatizzata alla sua base. Il trauma non riguarda solo il presente ma affonda in strati più profondi della memoria collettiva e individuale e si alimenta in un tempo che non ha avuto tregua. Le settimane più recenti, seguite all’intensificarsi del confronto con Hezbollah e alla guerra aperta con l’Iran, hanno amplificato un malessere già largamente diffuso nella popolazione israeliana. La ferita del 7 ottobre non si è mai chiusa. Allora, dice Halpérin, a essere colpiti furono non solo i corpi, ma le fondamenta psicologiche della società: la fiducia nel fatto che lo Stato sapesse proteggere i suoi cittadini, la certezza di vivere in un luogo dove la vita civile potesse scorrere in sicurezza, la convinzione – implicita e profonda – di non dover più subire ciò che era accaduto in passato. Oggi, a molti mesi dall’attacco di Hamas, l’intera popolazione continua a vivere sotto pressione. Lo stress non colpisce solo i soldati in prima linea. Le famiglie dei riservisti, lasciate ad affrontare l’assenza di padri, madri e figli riportano segnali evidenti di logoramento. Le coppie spesso si trovano a dover fronteggiare una gestione quotidiana sbilanciata, in cui una sola persona porta il peso della cura dei bambini, del lavoro e della tenuta emotiva. I bambini stessi non sono risparmiati. Halpérin osserva che la loro sofferenza riflette in maniera speculare quella degli adulti. Non c’è distanza tra l’ansia dei genitori e quella dei figli. I più piccoli registrano i cambiamenti negli sguardi, nei toni della voce, nella frenesia degli spostamenti, nelle notizie che trapelano anche quando si tenta di proteggerli. Non servono spiegazioni esplicite: la paura si trasmette comunque. La psiche infantile è porosa e capta i segnali del pericolo senza filtri. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, anche gli anziani non appaiono anestetizzati dal passato. L’idea di una resilienza costruita su esperienze precedenti – guerre, evacuazioni, attacchi missilistici – non regge. La guerra attuale, spiega Halpérin, non ha paragoni. Per l’intensità, per la durata, per la sovraesposizione mediatica, per la discontinuità del conflitto. Ma anche perché la società stessa è cambiata. È più frammentata, più esposta, più dipendente da equilibri precari. In questo contesto, i professionisti della salute mentale rilevano sintomi diffusi: insonnia, ansia generalizzata, difficoltà di concentrazione, depressione reattiva. Si manifesta anche un senso di colpa latente: per essere sopravvissuti, per non essere coinvolti in prima linea, per non riuscire a essere all’altezza delle aspettative proprie o familiari. Halpérin insiste sul fatto che non si tratta di fenomeni isolati: l’intera società è attraversata da un malessere strutturale. Alla domanda su come affrontare una crisi di queste dimensioni, lo psichiatra risponde con cautela. Israele è, da sempre, una società costruita in reazione a traumi profondi: la Shoah, prima di tutto, ma anche l’esperienza della diaspora e l’ostilità costante dell’ambiente regionale. Questa storia sedimentata si traduce, nel presente, in una difficoltà a distinguere tra minaccia reale e paura amplificata. «Viviamo – dice – con una parte della psiche costantemente in allerta». Il progetto SafeHeart nasce per offrire strumenti di ascolto e sostegno, in particolare ai giovani. Gli operatori cercano di mantenere uno spazio di calma e continuità nel caos. Ma è chiaro che l’intervento terapeutico, da solo, non basta. La crisi è politica, sociale e culturale prima ancora che clinica. I genitori, spesso in difficoltà, chiedono aiuto non solo per i figli, ma anche per sé. «Ci dicono: non siamo sicuri di riuscire a garantire stabilità», racconta Halpérin. Anche il sollievo provvisorio che si avverte quando l’allarme si attenua è, in realtà, parte del meccanismo traumatico. Non è una vera guarigione, ma una pausa, un respiro tra due tensioni. Il sistema nervoso resta iperattivo, pronto a riattivarsi. Questo stato di attesa prolungata ha un costo, che si somma ai dolori individuali, ai lutti, agli sradicamenti. Alla fine dell’intervista, Halpérin torna su un punto centrale: riconoscere la natura traumatica della società israeliana non è una forma di giudizio, ma un dato di fatto. Accettare questa diagnosi significa porre le basi per un processo di cura che deve coinvolgere non solo i singoli, ma anche le istituzioni e la cultura pubblica. «Non siamo ancora in grado di elaborare tutto ciò che è successo», afferma. «Ma possiamo cominciare a prenderne atto».
(Nell’immagine: un memoriale del 7 ottobre nella località di Tkuma vicino al confine con Gaza)