SCAFFALE – La Memoria e la piccola Gerusalemme

Le prossime celebrazioni del Giorno della Memoria avverranno, laddove avverranno, nei tempi più bui da quando, con la legge del 2000, fu istituita la commemorazione del 27 gennaio. Da molte parti si levano, sempre più forti, le spinte verso un’abolizione di questa manifestazione, che sembra ormai diventata un festival dell’ipocrisia.
Se lo scopo della lodevole iniziativa era quella di creare le condizioni affinché “mai più” questi orrori avessero a ripetersi, cosa dobbiamo dire quando abbiamo visto una crudeltà di certo non inferiore a quella nazista ripetersi di nuovo contro degli ebrei, come il 7 ottobre? Quando vediamo ogni giorno uno spaventoso capovolgimento della morale, con il mondo scatenato unicamente contro i giovani soldati che rischiano la vita (spesso perdendola) per cercare di salvare uomini, donne, bambini, anziani condannati a morire di una morte lenta e atroce in fetide fogne sotterranee? Quando assistiamo a una gigantesca ondata di odio antiebraico, che dilaga nei governi, nei parlamenti, nelle istituzioni, sui social, sulla stampa, nelle Università di tutto il mondo?
Dobbiamo celebrare il Giorno della Memoria per sentire ripetere, per l’ennesima volta, che gli ebrei “buoni” sono solo quelli morti, e che i vivi non devono mai, mai muovere un dito per difendersi? Per ascoltare di nuovo le ripugnanti menzogne che vogliono i discendenti delle vittime di ieri diventati i carnefici di oggi? Per sentire banalizzare e ridimensionare il vero genocidio di ieri, “compensato” o “azzerato” da quello falso di oggi?
D’altra parte, come si fa a dire di no, a gettare la spugna? A lasciare la Memoria nelle mani dei soli odiatori?
Davvero un dilemma insolubile.
Personalmente, ho ormai perso completamente la fiducia che coltivare la Memoria abbia un valore educativo, o possa formare degli anticorpi contro il Male. Ciò nonostante, continuo a ritenere che il nostro impegno a difesa della Memoria (la “vera” Memoria), in un modo o nell’altro, debba continuare. Ma ritengo che ciò vada fatto solo per un dovere etico, nei confronti di noi stessi e di chi non c’è più.Non posso non salutare con grande favore, perciò, la pubblicazione dell’edizione italiana del libro (già pubblicato, in edizione inglese, nel 2020) di Judith Roumani, Tra Pitigliano e Grosseto. Gli anni della Shoah nella Toscana meridionale (Belforte, 2025, pp. 305, euro 28). Un volume che rappresenta una ricerca di grande valore storico su vicende poco conosciute e studiate, quali quelle accadute agli ebrei italiani, nel tragico biennio 1943-1944, nella provincia di Grosseto e nel meridione della Toscana.
La cittadina di Pitigliano, in particolare, era sede di una consistente comunità ebraica, tanto da essere definita “la piccola Gerusalemme”. Naturalmente, anche su queste persone si abbatté il maglio delle persecuzioni razziali. Per loro, a Roccatederighi, paesino in provincia di Grosseto, fu costruito un campo di internamento e di prigionia, di proprietà ecclesiastica, nel quale, per volontà delle autorità fasciste, furono rinchiusi circa un centinaio di ebrei, locali o stranieri. Lo stesso vescovo risiedeva all’interno del campo, e ciò sembrò tranquillizzare molti dei prigionieri e di coloro che erano destinati a diventarlo, tanto che alcuni si consegnarono spontaneamente, convinti che la Chiesa li avrebbe protetti. Ma circa due terzi dei reclusi furono inviati a Fossoli o a Scipione, per essere poi deportati ad Auschwitz, dove in quasi 40 trovarono la morte.
L’autrice effettua una ricostruzione molto dettagliata e meticolosa, fondata su un’attenta disamina delle testimonianze, dalla quale emerge il vario comportamento assunto non solo dalle vittime, ma anche dai persecutori fascisti, dalla popolazione locale e dalle autorità ecclesiastiche. Gli esecutori del piano di eliminazione furono in genere zelanti ed efficienti, pur con qualche eccezione “all’italiana”. Molti contadini rischiarono la vita per salvare i prigionieri, molti altri finsero di non sapere e non vedere. Il ruolo della Chiesa fu ambiguo e opaco.
Quanto alle vittime, l’autrice ne descrive la lenta comprensione della terribile morsa che si andava chiudendo intorno a loro: «Alcuni ebrei, che erano fascisti leali, continuarono a lavorare per il regime. In ogni caso la maggioranza degli ebrei fu lenta a reagire, bloccata da considerazioni mal valutate, difficoltà di comprensione ed eccesso di ottimismo, malgrado la drammatica situazione fosse ormai chiara». D’altra parte, come si fa a prendere coscienza di una realtà terribile, quando ad essa pare non esistere alcuno scampo? È umano, inevitabile illudersi, quando la consapevolezza non può portare che alla disperazione. Era ormai tardi per fuggire, le porte erano chiuse, il destino segnato.
Il libro parte dalla vita degli ebrei della “piccola Gerusalemme” a partire dal XVI secolo. E, al di là del suo valore documentario, esso colpisce per la vividezza del racconto, che, a volte, assume i toni del romanzo: «La figura infagottata e piegata di un uomo a cavallo di un asino arranca lungo gli ultimi tornanti del sentiero che porta alla fortezza del conte Orsini, che incombe in modo tetro sul paesaggio circostante. Dietro, a cavallo di un altro asino, si trova la moglie, ugualmente infagottata, con le lacrime sulle guance che stanno ancora asciugandosi. Li segue un servo o un facchino con un asino carico di pentole e padelle, di coperte e perfino di molti libri».
Una lunga storia di uomini, di volti, dunque, piena di verità e di tristezza («l’ingiustizia, il dolore e la sofferenza», scrive l’autrice nell’introduzione, «sono state orribilmente reali”), che è esposta col rigore della scienza e la pietà narrazione. Perché, come annotò Umberto Eco, quando non è possibile spiegare, occorre narrare.
Francesco Lucrezi, storico