DAI GIORNALI DI OGGI – Bokertov 17 luglio 2025
Le tensioni in Siria sono al centro delle analisi dei quotidiani. Una nuova tregua a Sweida, nel sud del Paese, è stata annunciata dopo oltre 300 morti in scontri tra milizie druse e clan beduini sostenuti dall’esercito siriano, composto anche da ex jihadisti, ma la situazione resta instabile. Israele è intervenuto colpendo il centro di Damasco con raid aerei sul ministero della Difesa e nei pressi del palazzo presidenziale, rivendicando l’operazione come difesa della comunità drusa (Repubblica). Il Corriere della Sera evidenzia come il governo guidato da Ahmed al Sharaa – ex jihadista oggi appoggiato dalla Turchia e riconosciuto dagli Usa – sia accusato di violenze settarie e repressione. La Stampa riferisce che Israele ha colpito oltre 160 obiettivi e minaccia nuove operazioni se le truppe siriane non si ritirano da Sweida. Centinaia di drusi israeliani hanno attraversato il confine per soccorrere i loro «fratelli», mentre gli Stati Uniti parlano di un «malinteso» tra i governi e chiedono una de-escalation (Giornale).
Secondo il Foglio, l’offensiva siriana contro i drusi a Suwayda segna un fallimento politico e militare per il presidente Ahmad al Sharaa. Dopo massacri e repressioni, la comunità drusa rifiuta l’integrazione nell’esercito. Il leader spirituale Hikmat al Hijri ha denunciato il «massacro» e chiesto aiuto a Israele e agli alleati occidentali. Come nota anche il Corriere, Al Sharaa è isolato: delude i jihadisti che lo sostenevano e non rassicura le minoranze né gli alleati regionali. «Molti dei combattenti del suo gruppo originale sono radicali e hanno visto il loro leader negoziare con Israele per poi vedere Damasco bombardata da Israele. Qual è l’influenza di un presidente che non riesce a reagire agli attacchi di Israele?», afferma a Repubblica Cedric Labrousse, esperto di Siria.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu sta usando il conflitto interno in Siria come leva per rafforzare la posizione strategica di Israele nella regione. È la lettura di Stampa e Repubblica di quando sta accadendo in Medio Oriente. L’intervento israeliano, scrivono i due quotidiani, va letto come parte di un piano più ampio: indebolire i nuovi equilibri post-Assad, restringere lo spazio d’azione degli ex jihadisti al potere e riaffermare l’influenza di Israele sul Levante.
Sul fronte della politica interna, Netanyahu deve fare i conti con la crisi della sua maggioranza: dopo l’uscita di Agudat HaTorah, anche l’altro partito haredi, Shas, ha annunciato un passo indietro dal governo in protesta con la legge che limita l’esenzione dal servizio militare per gli studenti delle scuole religiose. Shas resta formalmente nella maggioranza (ora a 61 seggi su 120), ma secondo il Corriere della Sera, Netanyahu è «appeso a un filo» e, se il governo dovesse cadere, «rischia subito una commissione d’inchiesta» per l’impreparazione al 7 ottobre.
Ancora in stallo i negoziati per un cessate il fuoco a Gaza. Il capo dell’esercito, Eyal Zamir, ha dichiarato che, se non si raggiungerà presto un accordo sulla questione degli ostaggi a Gaza, l’esercito «intensificherà ed espanderà» la sua offensiva contro Hamas «il più possibile» (Stampa). A Gaza, riporta il Giornale, ci sono state nuove vittime nei pressi dei centri di distribuzione degli aiuti a Khan Younis. Lo denuncia la Gaza Humanitarian Foundation, riferendo di 19 gazawi rimasti uccisi nella ressa e uno accoltellato «nel mezzo di un’ondata caotica e pericolosa, alimentata da agitatori tra la folla». Dan Eliav, ex ufficiale israeliano, racconta al Sole 24 Ore la sua lunga esperienza militare, il ritorno in servizio dopo il 7 ottobre e la disillusione verso la guerra a Gaza: «Non ha più uno scopo, serve solo a tenere il governo al potere». E aggiunge: «Serve un accordo, non più bombe».
In un intervento su La Stampa, rav Roberto Della Rocca critica un precedente intervento di Vito Mancuso che distingueva tra ebraismo «spirituale» e un presunto «israelismo» politico, ritenuto deviante. Questa separazione, scrive Della Rocca, è una caricatura che riduce gli ebrei a «filosofi inoffensivi» e «lo Stato di Israele in una devianza malsana». Il rabbino contesta l’accostamento tra il concetto biblico di ḥerem e la «soluzione finale» nazista, definendolo una «amputazione del contesto». Il ḥerem, precisa, «non è un manuale di genocidio», ma un divieto rituale contro culti idolatrici che prevedevano sacrifici umani. Della Rocca ricorda come la Torah stessa limiti il potere politico e militare: «Il Deuteronomio costringe il re a un regime di poteri limitati […] e gli impone di scrivere, sotto supervisione sacerdotale, una copia personale della Torah». Il Talmùd, aggiunge, «richiede il consenso del Sinedrio» per dichiarare guerra.
L’identità ebraica, afferma, è fondata su una dialettica tra «spirito e storia», «cielo e terra», e ogni tentativo di separarle tradisce l’essenza stessa dell’ebraismo. L’ebraismo reale, come lo Stato di Israele, è fatto di tensioni, pluralismo e autolimitazione, scrive il rav: «Il Talmùd è il correttivo strutturale al potere». «Chi desidera un dialogo onesto», conclude Della Rocca, «non ha bisogno di inventare etichette come “israelismo”, né di brandire analogie improprie con la Shoah. Basterebbe riconoscere che, nella Torah come nella democrazia, la critica vive sotto la stessa tenda della fedeltà.
Su Repubblica Roberto Burioni racconta come un’innovazione scientifica abbia contribuito alla nascita dello Stato di Israele. Durante la Prima guerra mondiale, l’Inghilterra era a corto di acetone, fondamentale per produrre munizioni. Il chimico ebreo Chaim Weizmann sviluppò un processo biotecnologico per ottenerlo da amido, poi da castagne matte. Il suo contributo fu decisivo per lo sforzo bellico e, scrive Burioni, chiese in cambio solo «una nazione per la mia gente». Nel 1917 arrivò la Dichiarazione Balfour e, nel 1948, Weizmann divenne il primo presidente di Israele.
A proposito di Weizmann, l’istituto a lui dedicato in Israele è stato colpito durante la guerra con l’Iran. Il Foglio racconta come i missili iraniani abbiano danneggiato 45 laboratori di ricerca, tra cui quelli su cancro, neuroscienze e biotecnologie, causando perdite per oltre 300 milioni di dollari. L’attacco mirava al «cervello» scientifico del paese e ha coinvolto anche progetti internazionali, tra cui uno con il San Raffaele e uno con il Politecnico di Torino. Ma i ricercatori, sottolinea il quotidiano, assicurano: «Possono distruggere i muri, non lo spirito della scienza».
La Stampa ricorda Alberto Bolaffi, morto a 89 anni, presidente onorario della società Bolaffi, che nel corso della sua carriera ha rivoluzionato la filatelia. «Apparteneva orgogliosamente a una famiglia di origine ebraica e com’è ovvio antifascista. Laico, aiutava con discrezione la comunità ebraica torinese, per i restauri della Sinagoga», ricorda La Stampa.
Nel libro Il palazzo dell’ebraico (Claudiana), Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano raccontano la lingua ebraica come un edificio a sette piani. Massimo Giuliani, su Avvenire, lo definisce «un viaggio poetico e narrativo nell’anima viva di una lingua mai morta».
Contro Maurizio Molinari, giornalista ed ex direttore di Repubblica, è stata presentata all’ordine dei giornalisti un esposto disciplinare per una sua critica in tv a Francesca Albanese, relatrice Onu nei Territori Palestinesi. Molinari, raccontano Riformista e Libero, ha citato un dossier israeliano che documenta le dichiarazioni controverse di Albanese, tra cui la definizione degli attacchi di Hamas del 7 ottobre come «resistenza».