MUSICA – I teffilin di Arie

Nato nella città asburgica di Gross Tapolscany (oggi Topoľčany, Slovacchia), figlio del hazan e compositore di musica sinagogale Aharon Ze’ev Abrahamson nonché cresciuto in un contesto familiare saldamente radicato nella tradizione rabbinica e negli studi letterari ebraici, il musicista e direttore di coro ebreo slovacco Arie Abrahamson scelse di modificare il proprio nome in memoria di suo padre firmandosi in ebraico come Arie ben Erez (acronimo di AhaRon Ze’ev). 

Pur avendo talento come hazan e il titolo rabbinico di maskìl, Arie non praticò nessuna delle due attività e preferì trasferirsi a Bratislava, scrisse canti religiosi, profani e per bambini in ebraico, yiddish, tedesco e inglese; tra i suoi canti BakatzirYefe Nof su versi di Yehudah HaLevi, Ghetto su testo di Avrohom Reisen (scritta nel 1932, ben prima degli eventi storici), Unter die Grininke Boimeloch su testo di Haim Nachman Bialik, Hashmonaim KetanimStill mayn Hartz e Wo senen die Chaloimes, le sue canzoni furono eseguite da grandi voci ebraiche (a quei tempi un must dell’industria discografica internazionale) quali Joseph Schmidt, Maurice Gantchoff e Sidor Belarsky.

Informato segretamente da un funzionario statale slovacco in merito agli imminenti piani di invasione della Cecoslovacchia da parte del Reich, agli inizi del 1939 Arie lasciò Bratislava e riparò ad Anversa, città presso la quale aveva già studiato per diventare maestro orafo; si arruolò nell’esercito belga allo scopo di rinnovare il suo permesso di soggiorno ma, all’indomani della fulminea occupazione di Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo da parte della Wehrmacht, Arie e migliaia di richiedenti asilo in Belgio furono costretti a presentarsi al quartier generale dell’esercito a Gand, in realtà un abile stratagemma dell’autorità tedesca per prelevarli, caricarli su vagoni bestiame e trasferirli via treno a Saint-Cyprien (regime di Vichy) dopo un viaggio di 52 ore senza cibo, acqua e servizi igienici.

Saint-Cyprien Arie scrisse Es weisen blois die WentRibbon Alam su testo di Israel Najara, Blì yain, blì maim, blì challà, blì mispachàh (sullo Shabbath che si svolgeva senza vino, pane, acqua, famiglia); l’11 ottobre 1940, vigilia dello Yom Kippur, Arie copiò a mano il testo del Kol Nidrei producendone fogli ciclostilati distribuiti nel Campo tra gli internati ebrei. 

Trasferito presso il Campo di internamento di Argelès-sur-Mer al suo terzo tentativo di fuga da Saint-Cyprien, Arie richiese più volte via telegramma all’ambasciata americana a Marsiglia un visto per emigrare negli USA (era ancora possibile spedire telegrammi dai Campi di Vichy), richieste alle quali l’ambasciata rispondeva tramite telegramma prepagato con la frase ‘signore, il suo visto non è arrivato’; per Arie fu un gioco da ragazzi (si fa per dire) staccare con un coltellino la striscia incollata sul foglio di telegramma, maneggiare il testo di risposta dell’ambasciata in modo da leggersi ‘signore, il suo visto è arrivato’, presentarlo così falsificato alla guardia al cancello e andarsene indisturbato. 

Lasciato Argèles-sur-Mèr, Arie arrivò a Marsiglia privo di documenti legali; il 12 aprile 1941, mentre nel quartiere ebraico si accendevano per strada i fuochi per la bruciatura del chametz (si avvicinava la Pasqua ebraica), Arie fu raggiunto dalla moglie Penina e dai figli Edward e Hannah; si imbarcarono sulla US Exambion senza visto ma, grazie all’interessamento di parenti negli USA, sbarcarono nel New Jersey, negli ultimi anni di vita Arie fece l’alyà (morì a Gerusalemme nel 1992).

Ebreo osservante, Arie portava sempre con sé tefillìntallèt e un siddùr tascabile, durante una breve sosta durante il viaggio verso Saint-Cyprien lui e altri correligionari si riunirono per la tefillà quotidiana; un soldato belga cooptato dai tedeschi per la sorveglianza al treno notò Abrahamson indossare i filatteri al braccio e sulla fronte e, sospettando che fossero trasmettitori radio utilizzati per segnalare al nemico, gli urlò qualcosa in francese puntandogli il fucile al petto. 

Un suo commilitone belga intervenne e lo fermò urlandogli: “No, no, questi oggetti sono per la loro preghiera!”; Abrahamson si salvò, non altrettanto i tefillìn che furono confiscati e smembrati, gli lasciarono soltanto il siddùrche evidentemente ritennero…innocuo. Invece si rivelò estremamente utile ad Arie poiché, grazie a esso, scrisse decine di bellissimi canti a Saint-Cyprien.

Se si considera la potenza dei piccoli rotoli contenuti nei battìm (astucci) dei tefillìn (trasmettitori molto potenti) e le cinghie strette attorno al braccio e sul capo che tesaurizzano l’energia che accumuliamo durante la preghiera, non è esattamente questo il principio fisico della radio? 

Il soldato belga furioso non aveva tutti i torti, Arie e suoi correligionari stavano realmente trasmettendo via radio; anche se comunicavano con Qualcuno un po’ più in alto degli Alleati.

La bellezza non ha nulla a che vedere con l’estetica di cose o idee, non ha a che fare con un bella donna o un uomo affascinante o lo splendore di un palazzo; la bellezza è la skyline di una città risultante da calcoli, punto di fuga, sezione aurea e numeri di Fibonacci che, razionalmente elaborati e strutturati, offrono agli occhi e al cervello un disegno monumentale, inimitabile, unico.

In altre parole, la bellezza non è un bel giardino fiorito ma il pensiero che sottende a esso.

Abbiamo studiato sui libri la devastazione provocata nel Novecento dall’antisemitismo, abbiamo ascoltato la voce dei sopravvissuti ma non eravamo ancora giunti alla pornografia dell’antisemitismo che quotidianamente ci riversano addosso come letame il mainstream mondiale e le sue mastodontiche truppe cammellate; siamo ancora in tempo per azionare la retromarcia a questo treno che dal cuore dell’Europa ci sta portando dritti verso un Afghanistan cerebrale e culturale.

Recuperare questa musica equivale a riparare i tefillìn di Arie Abrahamson e trasmettere come una radio nel linguaggio pentadimensionale dell’Arte e della Musica; chiusi per ferie o per lutto, prima o poi i grandi magazzini della bellezza riapriranno definitivamente al pubblico.

Francesco Lotoro