GERMANIA – Le difficoltà degli ebrei lgbtq+ dopo il 7 ottobre

«Molti spazi queer oggi ci sono preclusi» denuncia Anastassia Pletoukhina, attivista e co-fondatrice di Keshet Deutschland, organizzazione che da anni si impegna per dare voce e visibilità agli ebrei LGBTQ+ in Germania. In un contesto politico e sociale sempre più polarizzato, la possibilità di vivere liberamente un’identità queer ed ebraica insieme si fa più complessa, quando non apertamente problematica. Joshua Schultheis, sulla Juedische Allgemeine, racconta come per molti ebrei queer i luoghi che un tempo rappresentavano un rifugio sono oggi diventati spazi segnati da tensioni, sospetti e in alcuni casi aperta ostilità. Il 7 ottobre ha rappresentato una cesura: dopo l’attacco di Hamas e il successivo intervento israeliano a Gaza, molte persone queer ebree si sono ritrovate isolate nei contesti che frequentavano, improvvisamente percepite come parte del “potere sionista”, qualcuno da cui prendere le distanze. Anche chi aveva militato a lungo in spazi queer e antirazzisti ha dovuto fare i conti con prese di posizione secondo cui l’appartenenza ebraica equivale a complicità. Un effetto collaterale è stato il silenziamento o l’autocensura, e in molti hanno abbandonato gruppi, evitato eventi, disattivato account social. Scrive Schultheis che all’interno delle comunità ebraiche la situazione non è più semplice. Sebbene non manchino esempi di sostegno e apertura – Keshet ne è testimonianza attiva – il contesto tedesco è segnato da atteggiamenti conservatori, soprattutto nelle comunità con forti radici ex sovietiche. L’omosessualità resta un tabù e l’identità queer è vissuta, quando accettata, come elemento privato, non da mostrare né tantomeno da celebrare. Il risultato è un paradosso difficile da sostenere: da un lato, si viene respinti da spazi queer per la propria ebraicità; dall’altro, ci si sente esclusi nelle proprie comunità per la propria identità sessuale o di genere. Nascono quindi le rivendicazioni: il diritto a spazi che permettano di vivere pienamente l’identità ebraica e queer, senza costrizioni, senza dover scegliere. È questione di protezione, ma anche di presenza, visibilità, orgoglio. Poter celebrare uno Shabbat o le festività nonostante o proprio grazie a una storia personale non allineata alle norme maggioritarie. L’urgenza ebraica, ricordare che essere ebrei significa assumersi la responsabilità di accogliere la complessità dell’altro, spinge a pensare che non basta combattere l’antisemitismo se non si combattono anche l’omofobia, la transfobia e tutte le forme di marginalizzazione che, silenziosamente, si insinuano anche dove ci si sente “a casa”. Riconoscere le identità molteplici per parlare al presente: Keshet significa arcobaleno e per i suoi aderenti quell’arco, teso tra memoria e futuro, è la figura più adatta a rappresentare una ricerca di spazio, voce e dignità.