TISHA BEAV – Rav Ariel Di Porto: La simmetria della redenzione

Il 7 ottobre ha segnato un prima e un dopo nella storia del nostro popolo. Come un fulmine a ciel sereno, quello che doveva essere il giorno più gioioso dell’anno – Simchat Torà – si è trasformato nel più buio dei lutti. In Israele come nella Diaspora, le nostre vite sono cambiate per sempre. Molti di noi si trovano ancora a fare i conti con un dolore che sembra non avere fine. L’atmosfera di lutto di Tishà beAv sembra rispecchiare perfettamente il nostro stato d’animo collettivo. Come ha magistralmente esposto Rav Daniel Glatstein lo scorso anno in una sua profonda lezione, esiste un legame misterioso e profondo tra quella tragica mattina del 7 ottobre e il significato più intimo di Tishà beAv. Il paradosso è straziante: il 7 ottobre la gioia si è trasformata nell’orrore più assoluto. Simchat Torà è diventato Tishà beAv. Ma proprio in questo paradosso, i nostri Saggi ci insegnano, si nasconde una verità profonda sulla natura stessa dell’esistenza ebraica.È significativo notare come esistano paralleli strutturali tra i periodi di lutto e quelli di gioia nel nostro calendario. Le tre settimane che precedono Tishà beAv – dal digiuno del 17 di Tammuz fino al 9 di Av – sono specularmente riflesse nelle tre settimane che ci conducono da Rosh haShanà verso Simchat Torà. Allo stesso modo, i nove giorni di Sukkot, Sheminì Atzeret e Simchat Torà nella Diaspora trovano il loro corrispettivo nei primi nove giorni del mese di Av, i più intensi nel lutto. Questa simmetria non è casuale. Come spiega il Maharal di Praga, nel loro nucleo più profondo, gioia e lutto sono due facce della stessa medaglia. Ma c’è di più. I nostri Saggi ci insegnano che proprio Tishà beAv, il giorno più tragico del calendario ebraico, porta in sé il seme della redenzione finale. Proprio nei momenti di massima oscurità si prepara la luce più brillante.
Da parte nostra cosa possiamo fare? Attendere la salvezza. Alcuni commentatori considerano questa attesa come la primissima mitzvà della Torà, e secondo il Talmud sarà una delle sei domande fondamentali che ci verranno poste alla fine della nostra vita: “Hai atteso la redenzione?” Ma cosa significa veramente “attendere la redenzione”? Non si tratta di una passiva rassegnazione o di una fuga dalla realtà. L’attesa della gheulà è, al contrario, un modo attivo di vivere, una lente attraverso cui interpretare gli eventi della storia e il nostro ruolo in essa. In questo Tishà beAv, mentre digiuniamo e ci addoloriamo per le distruzioni del passato e del presente, ricordiamo che stiamo anche piantando i semi della redenzione futura. Ogni lacrima sincera, ogni tefillà autentica è parte del processo che porterà alla gheulà finale.

Rav Ariel Di Porto