ROSH CHODESH ELUL – Rav Arbib: Dalle volpi al Tempio alla ricostruzione

Viviamo un periodo molto complicato della nostra storia, complicato e in buona parte inaspettato con un risorgere prepotente dell’antisemitismo. Ci sentiamo messi sotto accusa. Chi ci accusa ritiene di farlo in nome di una superiore moralità, è un antisemitismo dei buoni, di persone che pensano di essere dalla parte giusta della storia. Persone e organizzazioni che pensavamo amiche non si sono rivelate tali. nello stesso tempo le vicende che abbiamo vissuto in questi due anni sono estremamente dolorose. Viviamo in mezzo a una guerra che comporta lutti e sofferenze e che è conseguenza del peggior massacro di ebrei dalla Seconda Guerra Mondiale. Un pogrom che ancora non si è concluso, continua con l’angoscia per la sorte degli israeliani rapiti da Hamas, torturati e che ancora non sono stati restituiti. Tutto questo nella sostanziale indifferenza del mondo intero.

Come reagire a tutto questo?

Propongo di farlo ricorrendo alle nostre fonti tradizionali cercando ispirazione nella Torà e nella tradizione ebraica. La parashà che abbiamo letto questa settimana comincia con queste parole: Reè – vedi, pongo davanti a te la benedizione – berakhà – e la maledizione – kelalà. Il verbo usato è inusuale: vedere indica qualcosa che è presente davanti a me mentre il verso fa riferimento al futuro. C’è un midràsh che forse ci può spiegare l’uso di questo verbo. Il midràsh racconta del momento in cui i Chakhamim e Rabbi Akivà giungono davanti al Bet Hamikdash distrutto dai Romani e vedono una volpe che passeggiava nel luogo più sacro del santuario, il Kodesh hakodashim. I Chakhamim piangono e Rabbi Akivà ride. 

I Chakhamim gli chiedono: «Perché ridi?»
Lui risponde: «Perché voi piangete?»
«Come si fa a non piangere», dicono, «davanti a uno spettacolo del genere? Come si fa a non piangere vedendo la profanazione del luogo più sacro dell’ebraismo, il luogo in cui poteva entrare solo il Kohèn Gadòl nel giorno di Kippùr e ora le volpi vi passeggiano».
Rabbi Akivà risponde: «Per questo stesso motivo rido. Si è appena realizzata una profezia, quella della distruzione, sono sicuro che si realizzerà anche quella che dice che ancora “siederanno anziani e anziane nelle strade di Gerusalemme”. La profezia della ricostruzione, della salvezza».
I Maestri rispondono: «Akivà, ci hai consolato».

Che cosa dice Rabbi Akivà ai maestri che loro non sapessero già? Le profezie erano ovviamente conosciute anche da loro. In realtà Rabbi Akivà non si limita a citare i testi ma è come se vedesse in quel momento la distruzione e la ricostruzione, come se riuscisse a vedere anche nel momento più terribile la salvezza. Questa capacità di vedere un futuro migliore nei momenti più difficili è una delle caratteristiche più straordinarie del popolo ebraico. Vorrei ricordare un avvenimento storico fra i tanti.

Nel XIV secolo, in conseguenza della peste nera e delle accuse agli ebrei di essere portatori della peste e i responsabili della terribile strage in Europa, assistiamo a una delle peggiori persecuzioni della storia europea. assistiamo a uccisioni, sofferenze ed espulsioni. Gli ebrei vengono espulsi soprattutto dalle città tedesche e si rifugiano in altre da cui però potevano essere espulsi nuovamente. Vivono una vita estremamente precaria. Che cosa si fa in un caso del genere? Si vive giorno per giorno, senza fare progetti perché non si ha alcuna certezza nel futuro. ma gli ebrei non fecero questo: costruirono Battè knesset, luoghi di studio, una vita ebraica. Non persero la speranza, conservarono la loro capacità di vedere un futuro migliore anche in presenza di un presente che non prometteva niente di buono.

Questo è probabilmente il senso di Reè che abbiamo letto all’inizio della parashà. Nel momento in cui vedi la kelalà, in cui vedi realizzarsi qualcosa di negativo, devi riuscire a non perdere la speranza, devi riuscire a vedere la berakhà, la benedizione. Oggi è Rosh Chòdesh Elùl e comincia il periodo che ci porterà a Rosh Hashanà e Kippùr. È un periodo in cui siamo chiamati a ripensare il passato a considerare i nostri errori avendo però come prospettiva il futuro. Vorrei sottolineare questo secondo elemento. Il messaggio fondamentale delle feste di Rosh Hashanà e Kippùr è che si può sempre ricominciare da capo, che per quanti errori abbiamo commesso dobbiamo progettare un futuro migliore. Quest’idea, che nella tradizione ebraica va sotto il nome di teshuvà, è secondo rav Sachs uno degli elementi più straordinari dell’ebraismo. Rav Sachs dice che una delle parole chiave della tradizione ebraica è la parola tikvà, speranza: speranza non vuol dire che andrà tutto bene, vuol dire che possiamo agire perché vada bene, perché la nostra vita cambi, possiamo agire credendo fermamente in un futuro migliore.

Elùl, Rosh Hashanà e Kippùr vengono poco dopo la data più triste della storia ebraica, il 9 di Av, e il messaggio è molto evidente: dalla distruzione alla ricostruzione.

Negli anni precedenti nelle nostre Comunità si è data una grande importanza al rapporto con il mondo esterno. Quello che è accaduto negli ultimi due anni dimostra che qualcosa non ha funzionato. Credo sia giunto il momento di rafforzarci soprattutto all’interno, di migliorare noi stessi, di rafforzare la nostra identità. Questo non vuol dire che non dobbiamo preoccuparci o occuparci degli altri. Per poterlo fare però è necessario capire meglio chi siamo noi e cosa vogliamo, come immaginiamo il nostro futuro. Rosh Chòdesh è il momento del nuovo ciclo lunare, Rosh Chòdesh Elùl rappresenta questa prospettiva di rinnovamento più di ogni altro capo mese. 

Rav Alfonso Arbib
Rabbino capo di Milano
Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana