LA NOTA – David Sorani: Dentro Israele, la diversità è forza o pericolo?

Dopo un abituale soggiorno di due mesi in Israele, provo a delineare un piccolo bilancio critico delle mie impressioni di turista/quasi residente in una fase critica per il Paese: per l’evoluzione della guerra e della situazione mediorientale in sé, per le sue scelte politiche e strategiche, per i suoi rapporti a livello internazionale, per l’immagine/condizione degli israeliani e degli ebrei nel mondo.

I media
La prima raffigurazione del Paese sulla quale soffermarsi è quella che emerge attraverso i mass media (soprattutto tramite i telegiornali). Tutti i commenti, tutti i servizi, che si distinguono per la puntualità senza veli dell’analisi politica e strategica, rivelano la preoccupazione diffusa, la tensione palpitante per la crisi in corso, che è la guerra ma va oltre la guerra proponendo pesanti interrogativi sul futuro. I filmati, le interviste permettono di toccare con mano il dolore, la condivisione per la condizione degli ostaggi e delle loro famiglie; ricostruiscono le figure e le vicende dei soldati caduti; cercano anche una difficile obiettività sulla situazione e la sorte dei civili a Gaza, tentando di non eccedere in partigianeria patriottica ma evitando d’altro lato un’empatia “pericolosa” con gli abitanti del luogo perché anch’essa distorcente. Si capisce in ogni caso che nella prospettiva israeliana il centro del mondo non è la limitrofa Gaza, bensì gli interni problemi esistenziali. Tutti questi aspetti sono condivisi dal sistema informativo, ma con evidenza si coglie la diversità di focus, interpretazione, giudizio sui vari canali televisivi, a testimonianza di un pluralismo puntiglioso e polemico tipico del modo di essere israeliano.

Incontri e discussioni online
Nella mia rielaborazione critica assumono poi un particolare rilievo la riflessione etico-politica, l’analisi dell’opinione interna, i quesiti di fondo, le possibili risposte che si affacciano da alcuni incontri online (il più recente a cura dell’Associazione Italia-Israele di Milano ma realizzato in Israele col Rav Michael Ascoli e Jonathan Sierra). Si presentano qui dilemmi di fondo pesanti e ardui: sul piano etico, come giudicare anche secondo la tradizione ebraica la popolazione di Gaza, che il 7 ottobre partecipò massiccia al pogrom orchestrato da Hamas? Come atteggiarsi d’altro lato verso un nemico che pur tale rappresenta comunque “l’alterità” nei confronti della quale non è lecito eccedere? Sul piano concretamente politico e sociale, perseguire risultati per l’oggi attraverso la trattativa o scavare basi radicali per la sicurezza futura con una guerra senza quartiere sino alla presunta fine di Hamas? E poi: le risposte a queste domande sono quelle previste o il loro contrario? Chi ci dice che la insopportabile trattativa coi terroristi non possa condurre anche alla smobilitazione di Hamas privata delle sue armi di ricatto, oltre che alla liberazione degli ultimi hatufim? Chi ci dice che la dissoluzione armata di Hamas (ben ardua, peraltro) non possa rendere più probabile il rapido insorgere di una nuova violenza terroristica figlia della distruzione di Gaza? Questi dubbi tormentano l’opinione pubblica israeliana, animano un’angoscia e un’incertezza comuni, nella inestinguibile divisione etica e politica che si esprime attraverso gruppi diversi e divergenti. Il Paese si trova di fatto di fronte a un bivio, anche se il governo di Benjamin Netanyahu ha già apparentemente scelto la via da imboccare: quella della guerra continua.

Il dibattito con gli israeliani
Non solo i tg, non solo il dibattito sul web mi aiutano a capire il clima israeliano di questi tempi difficili. Molto significative sono anche le conversazioni con parenti e amici del luogo. I pareri e le convinzioni che emergono sono tra loro molto diverse, talvolta inconciliabili ed esprimono bene la polarizzazione dell’opinione pubblica israeliana su presente e futuro del Paese.
Alcuni criticano con durezza il governo e la figura di Netanyahu, che ritengono incapace di guidare il presente e di progettare il futuro di Israele o quantomeno di uscire dall’impasse di questo conflitto senza fine, se non addirittura proiettato solo sul suo personale interesse politico-giudiziario e non davvero interessato alle sorti dello Stato. Altri accentuano giudizio negativo e pessimismo parlando di inarrestabile deriva del Paese verso destra, verso una nuova forma di fascismo con un accentramento del potere nel premier e una progressiva perdita dei diritti e delle libertà sostanziali. Altri ancora, tutto all’opposto, vedono nella guerra senza quartiere ad Hamas la sola soluzione possibile ed esaltano la figura di Bibi, unico politico capace e in grado di guidare Israele con decisione e forza quando il mondo lo vuole sommergere, criticato ingiustamente e minacciato da una sinistra israeliana sediziosa nemica della patria. C’è poi anche chi, con un’aliyah più recente e una mentalità più legata alla visione politica italiana, guarda agli eventi e alle scelte dei vertici israeliani con sostanziale pessimismo e scetticismo di fondo, senza delegittimare l’operato dell’ esecutivo ma con atteggiamento pervicacemente critico rispetto a singoli errori, a una superficialità politica e a un autoritarismo di fondo.

Le impressioni e i giudizi personali
A darmi un’idea della situazione complessiva di Israele, oltre a tutti questi stimoli, è la vita quotidiana a Ramat Gan, città di media grandezza nel centro del Paese limitrofa a Tel Aviv, immagine di un Israele “normale e popolare”. Tutto procede con regolarità e apparente tranquillità (con una regolare tensione legata alle sirena d’allarme), ma in questo equilibrio di superficie talvolta avverti un clima pesante, un’ incertezza angosciante sul futuro, un trauma non ancora superato dopo quasi due anni, un conflitto ormai perenne non risolto, e su tutto il dramma senza fine degli ostaggi. Le loro fotografie – raccolte insieme o isolate alle fermate del bus, nei parchi, agli incroci, sui muri cittadini e sulle vetrine – ti guardano allegre eppure tragiche, ti fanno sentire impotente eppure in colpa, ti spingono a ripiegarti con dolore ed empatia su una ferita ancora aperta e sanguinante. Con qualche fermata d’autobus nel congestionato traffico cittadino sei a Tel Aviv, a Kikar ha-Hatufim, tra il Museo d’arte contemporanea e l’Opera: lì questo sentimento si dilata, tra le foto le installazioni i punti di incontro e discussione. Dentro questo monumento del dolore la sofferenza si fa pianto e rabbia, per le tante vite perdute il 7 ottobre e dopo il 7 ottobre, per le poche vite rimaste appese a un filo e ormai quasi senza speranza. E allora rifletti ancora e ti dici che una via d’ uscita va trovata, un compromesso anche strumentale tra tante giuste e pur opposte considerazioni. Tra l’urgenza di salvare gli ultimi prigionieri vivi e la previdenza nell’evitare, pensando a una stabilità futura, la sopravvivenza dei terroristi. Salvare le vite in pericolo e salvare l’avvenire. Scardinare l’organizzazione nemica (se esiste ancora) senza pretendere di procedere in una guerra infinita per eliminarne ogni componente. Cercare un compromesso forse indispensabile per il pikuah ha nefesh (salvare la vita umana) e accantonare per ora l’idea (per tutto il mondo “obbligatoria”) dello Stato palestinese, che ad oggi sarebbe politicamente impossibile e per Israele si trasformerebbe in un suicidio. Nel migliore dei mondi possibili – in un Medio Oriente pacificato (cosa ben lontana dalla realtà attuale), per dare un assetto stabile ed equanime alla regione lo Stato palestinese dovrà forse esserci, ma i tempi per la sua realizzazione non sono certo maturi oggi.

Divisi ma uniti
Nel complesso, l’istantanea dal mio punto di vista è quella di un paese immerso con forza e tensione interne nell’incertezza più totale sul proprio futuro; un paese drasticamente diviso sulle priorità e le prospettive immediate nonché sul modello politico-istituzionale di fondo, ma anche basilarmente unito nella pervicace convinzione di resistere andando comunque avanti, di opporsi con tutto se stesso alla furia distruttrice dell’Islam radicale e dei suoi attuali forse inconsapevoli fiancheggiatori occidentali.
Ogni giorno una pagina più difficile sembra aprirsi per Israele, e di riflesso per gli ebrei nel mondo. Ma speriamo che questa unitaria forza interiore abbia la meglio, come è sempre avvenuto nel corso della nostra millenaria vicenda.

David Sorani