ROSH HASHANÀ 5786 – L’augurio di Chayim Tovim

Il Talmud (Rosh ha-Shanah 16b) spiega che a Rosh ha-Shanah il S.B. siede in giudizio tenendo aperti tre registri: quello in cui annota i nomi dei giusti, destinati alla vita, un secondo in cui segna i malvagi, destinati alla morte e infine quello dei “medi”, il gruppo più numeroso la cui sentenza è sospesa fino a Yom Kippur in attesa che decidano con il proprio comportamento il loro destino. Gli Yamim Noraim, i “dieci giorni austeri” che ora cominciano, sono dunque particolarmente dedicati alla Teshuvah (pentimento), ma anche alla Tefillah (preghiera) e alla Tzedaqah (opere di assistenza), perché queste pratiche virtuose «stornano eventuali decreti negativi». La Tefillah del nuovo anno è segnata da alcune aggiunte al testo quotidiano dello Shemoneh ‘Esreh. Nella prima benedizione chiediamo al S.B.: «RicordaTi di noi per la vita… e iscrivici nel Libro della Vita». Perché limitarci a chiedere la vita e non spingerci fino a domandare una vita buona? La questione si fa ancora più intrigante se constatiamo che invece nella penultima benedizione insistiamo proprio per questo: «scrivi per una vita buona tutti i figli del Tuo Patto»! In prima battuta non siamo autorizzati a esagerare: dobbiamo accontentarci del minimo. Solo una volta giunti in fondo allo Shemoneh ‘Esreh con tutti i suoi richiami al ravvedimento e aver dimostrato la nostra buona volontà, allora possiamo chiedere di più.
Qualcosa di analogo troviamo già nella Torah. È noto che i Dieci Comandamenti sono scritti due volte: nel libro di Shemot e in quello di Devarim. Riscontriamo nei due capitoli delle varianti: diciassette parole in tutto vengono aggiunte nella seconda versione. I commentatori notano che nella prima versione è completamente assente la let- tera tet. È l’iniziale della parola tov (buono), il cui valore numerico è proprio 17. Essa appare nel quinto comanda mento limitatamente al libro di Devarim (5, 16): «Onora tuo padre e tua madre… affinché si prolunghino i tuoi giorni e affinché ti venga del bene (yitav lakh)». Spiega Rabbenu Bachyè che le due versioni riflettono le due coppie di Tavole. Nella prima versione il S.B. avrebbe deliberatamente omesso la parola tov prevedendo che le prime Tavole sarebbero state rotte: non voleva che si pensasse che Egli avesse deciso di sopprimere il Bene dal mondo! Altri danno interpretazioni differenti. Ibn ‘Ezrà sostiene piuttosto che la prima versione riguarda questo mondo e la seconda il mondo a venire: solo il ‘olam ha-bbà è chiamato ‘olam she-kullò tov: «Mondo che è Bene integrale» (Chullin 141b).
Ritengo di poter dare a mia volta un’interpretazione. Fra le due versioni dei Dieci Comandamenti sono trascorsi 40 anni. La prima era rivolta ai reduci dalla schiavitù egiziana. A individui provati dalla sofferenza non sarebbe parso vero di poter semplicemente vivere. Come secoli più tardi il Profeta Yirmeyahu avrebbe argomentato dinanzi alla tragedia della distruzione di Yerushalaim: «Di cosa può lamentarsi l’uomo vivente?» (Ekhah 3, 39): gli basti esser rimasto in vita! Diverso il caso della generazione successiva, nata nel deserto. Prossimi ormai all’ingresso nella Terra Promessa, dove avrebbero finalmente fondato il loro Stato, non si sarebbero accontentati di sopravvivere. Essi aspiravano qualitativamente e non solo quantitativamente a una vita buona. I 40 anni trascorsi nel deserto li avrebbero temprati nel frattempo. Noi oggi siamo come questi ultimi. Chiediamo per noi stessi e per tutto Israele non una stentata sopravvivenza, ma una “vita buona”: «Rallegraci per tanto tempo quanto ci lasciasti soffrire» (Tehillim 90, 15). Per parte nostra, metteremo tutta la pazienza e il tempo necessari. Le-shanim rabbot, tovot u-mtuqqanot.

Rav Alberto Somekh