ROSH HASHANA – Rav Tomer Corinaldi: Tra minaccia e speranza

È iniziato un nuovo anno. Mi trovo a riflettere e rimuginare sulla situazione. Di solito, in questo periodo, i pensieri sono personali – riguardo alla vita individuale: un bilancio del passato e uno sguardo verso il futuro… Quest’anno è diverso. Quest’anno la situazione nazionale e internazionale è diventata personale, penetra nelle ossa. L’antisemitismo ha rialzato la testa. Ritornano situazioni che pensavamo appartenessero ai giorni bui che precedettero la Seconda guerra mondiale. La sensazione è pesante. Sorge un senso di minaccia esistenziale che non ho provato nemmeno durante gli attentati terroristici in Israele negli anni ’90 e 2000. Questa dura realtà ci invita a fermarci e a porci delle domande. Come fare teshuvà in una situazione simile?
A Rosh haShanà abbiamo pregato: «Ti temano tutte le opere, si prostrino davanti a Te tutte le creature, e diventino tutti uniti in un solo legame per compiere la Tua volontà con cuore integro» – e molte altre preghiere che parlano di tutti gli abitanti della terra. È un giorno universale, in cui tutti gli esseri del mondo si presentano a giudizio, non solo il popolo d’Israele.

Avraham l’Ivri

Siamo tutti discendenti di Avraham l’Ivri: «Venne il fuggiasco e riferì ad Avram l’Ivri» (Genesi 14,13) dal termine ever – colui che è passato dall’altra parte: dal paganesimo alla fede. Di lui il Signore ha detto: «Infatti Io l’ho conosciuto perché ordini ai suoi figli e alla sua casa dopo di lui di osservare la via del Signore, per praticare giustizia e diritto (tzedakà umishpat)» (Genesi 18,19). E a Rosh haShanà abbiamo letto: «Avraham piantò un tamarisco a Beer Sheva e invocò là il nome del Signore, Dio eterno» (Genesi 21,33). Noi siamo Ivrim, non solo Giudei. “Giudeo” (Yehudi) può forse essere percepito come origine etnica. “Ivri” è più antico, più profondo: è missione, è responsabilità. È questo il significato dell’essere ebreo. Così disse il profeta Giona, quando i marinai gli chiesero chi fosse, mentre cercava di fuggire dalla sua missione profetica verso gli abitanti di Ninive: «Ivri anochi – sono un Ivri» (Giona 1,9).

Forse lo abbiamo dimenticato

Forse ci siamo concentrati troppo su noi stessi. Forse abbiamo fondato uno Stato pensando che fosse solo per noi. C’è chi sogna un popolo moderno, sviluppato, di successo economico – una visione universale che aspira a connettersi al mondo, ma che rimane essenzialmente pragmatica, priva di una vera dimensione spirituale. C’è chi sogna un popolo che osserva la Torah e le mitzvot nella sua terra, persino la redenzione, ma lungo la strada dimentica il mondo. Eppure la Torah e il Tanakh sono pieni di visioni universali: «Molti popoli verranno e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; Egli ci insegnerà le Sue vie e noi cammineremo nei Suoi sentieri. Da Sion infatti uscirà la Torah e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli giudicherà tra le genti, sarà arbitro di molti popoli. Allora trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non impareranno più la guerra» (Isaia 2,3-4). Noi non siamo un popolo come gli altri popoli. L’ebraismo non è una razza – non lo è mai stato. È tradizione. È modo di vivere. È vocazione morale e spirituale. La Terra d’Israele non appartiene a noi in senso politico. Il popolo ebraico è esistito e sopravvissuto anche nell’esilio. È scritto nella Torah: «Poiché a Me appartiene tutta la terra, voi siete presso di Me come forestieri e ospiti» (Levitico 25,23). La Terra d’Israele ci è stata data dal Signore per vivere secondo la Torah: una vita di valori, morale, spirituale. Perché il mondo guarda a Israele? Perché non è una questione politica. È molto di più. L’odio comincia dagli israeliani, passa ai “sionisti” e arriva a tutti gli ebrei – come sempre nella storia. Non dobbiamo ridurci a questioni pratiche o politiche. C’è qualcosa di molto più profondo.

Due movimenti mondiali opposti ma uniti dall’odio

Due movimenti mondiali, opposti tra loro in tutto, guidano oggi la linea antisemita: da un lato il jihad fondamentalista musulmano, dall’altro la sinistra progressista estrema (quella che alcuni chiamano woke). È impossibile immaginare due movimenti con una contraddizione così estrema tra loro. In realtà, la sinistra progressista non potrebbe sopravvivere nei Paesi musulmani, e non solo in quelli fondamentalisti. Cosa li unisce? Due cose: la volontà di sovvertire l’ordine mondiale moderno, con una spinta rivoluzionaria e persino anarchica, con movimenti anti-istituzionali; un odio viscerale verso Israele e verso l’ebraismo. È un punto di contatto folle e irrazionale. Certo, la sinistra estrema in Occidente non è arrivata ai livelli d’odio del jihad e non si caratterizza per terrorismo sanguinario. Tuttavia, anche lì si può riconoscere un odio estremo e un fondamentalismo del pensiero che zittisce ogni voce diversa.

E il mondo? L’Europa?

Di fronte a due ideologie così radicali, con tanto fervore e fuoco, non hanno nulla da offrire. Una vita di vuoto borghese e senza significato, come dice la frase: «Chi non ha un perché per cui morire, non ha nemmeno un perché per vivere». Il mondo occidentale postmoderno ha perso i suoi obiettivi, non ha più grandi aspirazioni. Questi movimenti trascinano il mondo, e molti giovani si identificano con essi – sia nel mondo musulmano sia in quello “cristiano-occidentale” – perché offrono un senso. E così cresce la corrente antiebraica. Ci indicano, ci chiamano: voi siete ebrei e voi siete il nemico. La guerra e la propaganda. La guerra a Gaza è dura, con molte vittime. È doloroso e difficile. Ma non c’è alcuna spiegazione razionale per la propaganda brutale e unilaterale, che ricorda i giorni bui dell’antiebraismo.

E noi?

Che cosa proponiamo? Abbiamo una visione? Abbiamo qualcosa da dire al mondo? Oppure siamo occupati solo a difenderci – fisicamente e politicamente – invece di presentare idee, concezioni, visioni? Ci trinceriamo e ci nascondiamo, o al contrario, i più coraggiosi tra noi rispondono con contrattacchi. È sufficiente? Assolutamente no. Non è una questione quantitativa. È qualitativa. Manca la sostanza.

Una nuova fase nella storia

Abbiamo fondato uno Stato. Abbiamo visto grandi miracoli. È tempo di capire: Non siamo un popolo come gli altri popoli. Il nostro Stato non è uno Stato come gli altri Stati. Abbiamo un compito, una missione, un grande messaggio. Prima di tutto dentro di noi dobbiamo tornare alle radici, all’Ivriut. A ciò che ci rende popolo. A ciò che, anche se cerchiamo di dimenticare, i nostri nemici ci ricordano. Siamo un popolo forte, con forze immense e una provvidenza che ci accompagna da migliaia di anni. E questo messaggio deve rafforzarsi e diffondersi al mondo intero. Il profeta Isaia profetizza: «Guai all’Assiria, verga della mia ira; il bastone che hanno in mano è il mio sdegno» (Isaia 10,5). I nostri nemici sono inviati come messaggeri per risvegliarci. Dobbiamo comprendere che è necessario passare a una nuova fase: non basta aver fondato uno Stato, dobbiamo connetterci all’essenza del popolo d’Israele, ritornare a chi siamo veramente, camminare verso noi stessi. Capire che la prossima tappa deve essere più profonda e più ampia. Il popolo d’Israele è ancora incompleto – grandi parti di esso si sono perdute lungo la storia, disperse in tutto il mondo e in attesa di tornare a casa. Israele non è solo Giuda; comprende tutte le tribù e tutte le diaspore. E oltre a questo – la chiamata è a tornare a essere ‘Ebrei/Ivrim’, a ritornare alla visione universale di Abramo nostro padre, padre di una moltitudine di nazioni. Siamo Ivrim e, in questo, anche portatori di una visione morale e spirituale per il mondo intero. Il mondo ci osserva e attende da noi…

Un popolo ponte

Per secoli, ancor prima del ritorno nella nostra terra, gli ebrei nella diaspora hanno svolto un ruolo unico di collegamento tra Israele e tutti i popoli. Creando legami di pensiero, traduzione e cultura – hanno portato le idee della Torah e della morale ebraica alle nazioni del mondo, e allo stesso tempo hanno assorbito idee e ricchezze dalle nazioni stesse. Così il popolo d’Israele è diventato un popolo “internazionale”, come spiega il rabbino Elia Benamozegh. Questo compito assume oggi un’importanza ancora maggiore: mentre una parte significativa del popolo d’Israele è tornata nella propria terra, gli ebrei della diaspora hanno un ruolo fondamentale – essere un anello di connessione e di legame tra il popolo d’Israele che vive nello Stato d’Israele e l’intera umanità. Lo Stato d’Israele ha bisogno degli ebrei della diaspora, e gli ebrei della diaspora hanno bisogno dello Stato d’Israele.

Forza e speranza

La Terra d’Israele si acquisisce attraverso le sofferenze. E così è detto nella nostra parash VaYelech: «Siate forti e coraggiosi, non temete e non vi spaventate di fronte a loro, perché il Signore tuo Dio cammina con te: non ti lascerà e non ti abbandonerà» (Deuteronomio 31,6). Queste parole ci ricordano la nostra fonte di forza, e ci chiamano a non rimanere nell’angoscia o nella debolezza, ma a scegliere di stare in piedi, uniti, e trovare in noi stessi la forza di connetterci alla nostra essenza e di irradiare luce. E voglio concludere con le forti parole di Rav Kook: «I giusti puri non si lamentano dell’iniquità, ma aggiungono giustizia; non si lamentano dell’empietà, ma aggiungono fede; non si lamentano dell’ignoranza, ma aggiungono sapienza». Shalom alenu ve’al kol Israel. Shana Tova!

Tomer Corinaldi, Rabbino capo di Verona