YOM KIPPUR – Le ricorrenze ebraiche: finestre sulla storia

Nella cultura ebraica, la scansione dei giorni, il fluire dei mesi e il succedersi delle ricorrenze costituiscono la struttura portante attorno alla quale si sviluppa l’intera esistenza. Il tempo non è mai un semplice susseguirsi di secondi, minuti o giorni: è piuttosto una trama viva e palpitante, una struttura portante che organizza l’intero vivere ebraico.
Attraverso lo scorrere consapevole delle settimane e delle ricorrenze, si alternano in modo armonico gioia e dolore, lavoro e riposo, riflessione e festa. Le unità temporali, nella concezione ebraica, costituiscono un prezioso metro di misura, e quindi di orientamento, per muoversi nella dimensione del reale, ma al tempo stesso manifestano una tendenza ascendente densa di significato etico e ideale, che incarna in ogni momento lo slancio dell’attesa messianica.
Le stagioni verso le tre grandi festività del pellegrinaggio per Gerusalemme, e il ciclo annuale, che chiude l’anello del dipanarsi delle stagioni, verso il Capodanno e il giorno di Kippur. Per questo motivo la capacità di vivere il tempo in modo consapevole è alla base della comprensione della vita ebraica, una finestra sul significato profondo della realtà. Ogni anno non è una semplice ripetizione, ma un ritorno arricchito: si rivivono eventi, si rinnovano alleanze, si riaccendono speranze, una mappa sacra che accompagna il popolo ebraico nelle sue stagioni interiori. Secondo la Bibbia, l’anno inizia con il mese di Nissàn, in primavera, il tempo della rinascita, quando si celebra Pesach, la liberazione dall’Egitto. Un secondo pilastro è il mese di Tishrì, all’inizio dell’autunno, quando si commemorano la creazione del mondo e l’inizio della vita umana. Nissàn e Tishrì rappresentano due poli spirituali: il primo incarna la dimensione storica della libertà, il secondo quella cosmica della creazione. Tra questi due estremi — redenzione collettiva e introspezione individuale — si muove la vita ebraica: natura e cultura, gioia e pentimento, rivelazione e responsabilità. Il ciclo festivo comincia con due delle tre feste del pellegrinaggio: Pesach e Shavuot, momenti di gioia collettiva che, in origine, comportavano la salita a Gerusalemme. Si arriva poi a Rosh Ha-Shanà e Yom Kippur, giornate di introspezione, pentimento e purificazione. Infine, si torna alla gioia piena con l’ultima festa del pellegrinaggio, Sukkòt.
Pesach rappresenta il tempo dell’innamoramento tra il Creatore e il popolo di Israele, che giunge al culmine nel giorno di Shavuot, con la consegna delle due Tavole del Patto: il contratto nuziale. Ma il patto viene infranto 40 giorni dopo, il 17 di Tamùz, con il peccato del vitello d’oro. È nei mesi estivi di Tamùz e Av che si consuma il tempo del distacco e della crisi spirituale, culminante nel 9 di Av, giorno di digiuno e lutto per la distruzione del Tempio e l’inizio dell’esilio. Proprio da questa caduta nasce il bisogno di ritorno: nel mese di Elùl, il popolo intraprende il cammino della teshuvà, del ritorno all’Eterno, fino a giungere a Rosh Ha-Shanà e Yom Kippur, che portano al perdono e alla riconciliazione. Questo percorso contiguo culmina nella Sukkà, la dimora fragile ma sacra, simbolo dell’intimità ritrovata con il Creatore, un proto-Tabernacolo. A chiudere il cerchio arrivano le feste della resilienza e dei miracoli: Chanukkà e Purim, che celebrano la sopravvivenza dell’identità ebraica anche nei momenti più oscuri. Ogni ricorrenza ebraica non è solo una commemorazione, ma un’esperienza viva, un ritorno attivo e coinvolgente al significato originario. Il calendario ebraico si trasforma così in un teatro sacro, dove ogni ebreo è al tempo stesso spettatore e protagonista. Il tempo non è soltanto ciò che passa: è ciò che ci plasma. E vivere il tempo con consapevolezza è, per l’ebraismo, la chiave per comprendere la vita stessa.

Rav Roberto Della Rocca