DAI GIORNALI DI OGGI – Bokertov 6 ottobre 2025
Al via a Sharm el-Sheikh i colloqui dedicati al piano Trump per Gaza e il Medio Oriente. «Comincia una settimana che potrebbe riscrivere la storia e la stabilità del Medio Oriente oppure, se andasse male, potrebbe decidere la cattiva sorte degli ostaggi ancora vivi nelle mani di Hamas (fra i 20 e i 22)», sottolinea il Corriere della Sera. Per il Corriere, il nodo più difficile da trattare sembra il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza, perché «non è scontato che Hamas accetti una pausa fra il rilascio degli ostaggi e il ritiro dell’Idf che (da sempre) vorrebbe fosse totale (condizione inaccettabile per Israele prima della nuova Gaza “riqualificata”)». Fonti del movimento, informa il Corriere, «hanno rivelato ieri all’emittente saudita Al-Sharq le presunte condizioni sul punto: il ritiro delle truppe dell’Idf nelle posizioni che occupavano a gennaio». Superata la fase degli ostaggi, qual è il punto più importante per Israele?, chiede La Stampa all’esperto di sicurezza Yossi Kuperwasser. «Garantire che Gaza non torni a essere la base per futuri attacchi terroristici contro Israele da parte di Hamas o di qualsiasi altra organizzazione terroristica che possa sostituirlo in futuro, come è accaduto dopo il disimpegno dalla Striscia nel 2005», risponde Kuperwasser. Per questo «è fondamentale, dal punto di vista militare, assicurarsi il controllo di tutti gli accessi».
«Un clima di speranza si percepisce», dichiara al Corriere il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme. «Il fatto è che ci sono tante difficoltà, tanti punti interrogativi. C’è ancora tanto da fare. Tanto. Però questa è una possibilità che non si era mai vista prima». Più scettico lo scrittore israeliano Etgar Keret, sentito da Repubblica: «Io dico solo di non illudersi, perché troppe volte ci siamo stati vicini e non è successo niente». La pace ora è vicina?, domanda il Giornale all’ambasciatore israeliano Jonathan Peled. «Penso di sì. È importante dire che non è solo un piano di Trump. È stato elaborato con il supporto del mondo arabo e musulmano», spiega Peled, secondo il quale «tutti capiscono che il problema è Hamas e che per risolvere l’equazione bisogna tagliare fuori Hamas dall’equazione». Lo scrittore Eshkol Nevo riflette sul Corriere sul secondo anniversario del 7 ottobre: «Sono due anni che apriamo gli occhi ogni mattina davanti a un altro giorno che ci consegna le immagini degli ostaggi chiusi in gabbia e affamati nei tunnel sotterranei. Un altro giorno di bombardamenti, morte e privazioni per uomini, donne, bambini e anziani a Gaza. Un altro giorno di notiziari stampa che riportano gli elenchi dei soldati morti». Ziv Koren, il primo fotografo ad arrivare sui luoghi del massacro, racconta alla Stampa: «Vorrei dare un volto alle storie dei civili di Gaza e alla loro sofferenza sconfinata per riscattarle da Hamas che le usa a beneficio della propria narrativa, per segnare un punto contro Israele».
In Italia cresce l’allerta per episodi di antisemitismo. «Ebrei di merda, bruciate tutti» è la scritta rinvenuta sulla serranda di un panificio casher di Roma. «Il clima in Italia, dopo due anni di bombardamenti a Gaza e dopo il blocco della Flotilla, è sempre più surriscaldato», chiosa Repubblica. «E così c’è chi come il presidente della comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, invita gli iscritti a non portare addosso segni di riconoscimento». Di antisemitismo scrive anche il Tempo, che titola: “Due anni dal 7 ottobre tra striscioni, insulti e minacce agli ebrei”. Nell’imminenza dell’anniversario si è svolta nel quartiere ebraico di Roma l’iniziativa “Una luce per gli ostaggi” organizzata dalla Rappresentanza Italiana del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, dall’Unione Giovani Ebrei d’Italia, da Run for Their Lives – Roma e dall’Associazione Setteottobre, con il patrocinio Ucei (Repubblica Roma, tra gli altri).
Nelle piazze italiane è sfilato negli scorsi giorni un pacifismo facile «che trasforma in nemici della pace i simboli dell’occidente», denuncia sul Foglio il direttore Claudio Cerasa. Al contrario «quello difficile, e poco virale, si attiva quando si riconosce che in una guerra gli aggrediti non vanno confusi con gli aggressori, quando si capisce che i terroristi non vanno confusi con i partigiani, quando si ammette che l’unico modo per non perdere la bussola quando si sogna la pace è aiutare a combattere il terrore anche quando il terrore non fa necessariamente rima con occidente». Sempre sul Foglio, Emanuele Calò spiega di provare «un senso d’angoscia» di fronte «al radicamento strutturale dell’odio antisemita» nelle piazze e nella società italiana. Mentre Daniela Santus ragiona sull’antisemitismo «che non è morto, si è solo travestito con parole che suonano progressiste». Come lo slogan “From the river to the sea”.
«Israele è l’unico paese al mondo del quale si possa pronunciare la morte con l’evidenza incontrovertibile dell’affermazione. E viene da chiedersi perché mai tanta sicurezza sull’insostenibilità di questo paese. Sul fatto che non abbia futuro. Che o si sta suicidando o sta morendo, comunque è alla fine», scrive Elena Loewenthal sulla Stampa, riflettendo sul libro La fine di Israele di Ilan Pappè. «Tutto questo viene prima e va al di là del conflitto in corso».