UNIVERSITÀ – Gli studenti israeliani isolati e quella solidarietà a sorpresa

Negli ultimi mesi la presenza di studenti israeliani nelle università italiane è diventata una sorta di cartina di tornasole: misura allo stesso tempo la temperatura civile del Paese e la capacità delle sue istituzioni di distinguere tra critica politica e ostilità identitaria. Nelle aule universitarie, dove si dovrebbe coltivare il pensiero libero, si è spesso insinuata una tensione sorda, un disagio che gli studenti israeliani hanno avvertito ancora prima che si manifestasse apertamente. Non si tratta sempre di episodi clamorosi o di slogan urlati: più spesso hanno avertito la diffidenza, uno scarto nei toni, un improvviso silenzio quando viene esplicitata l’dentità israeliana. C’è chi sceglie di tacere, di non esporsi, cerca di non dire da dove viene, in una forma di autodifesa imparata in fretta. Gli spazi di confronto si riducono, le amicizie si interrompono mentre si moltiplicano le discussioni in cui Israele è evocato come un’entità astratta priva di volti e di nomi, e chi viene identificato come israeliano diventa, suo malgrado un bersaglio simbolico. In questo clima, studiare, partecipare alle lezioni o ai seminari o semplicemente frequentare l’università assume un peso che non dovrebbe essere portato da ragazzi. Perchè i ragazzi israeliani da molti anni frequentano le università italiane: scelgono Medicina, la facoltà in cui la loro presenza è più forte anche perché molti corsi sono in inglese, ma anche Veterinaria, Ingegneria, Psicologia… E molti alla richiesta di raccontare come si è trasformata la loro vita hanno preferito non rispondere nonostante la garanzia dell’anonimato. Praticamente tutti hanno chiesto di non essere identificabili: non solo evitare di scrivere i loro nomi, ma far sì che non sia possibile risalire a chi sono. 

Non tutti hanno esperienze così negative, a dire il vero, ma la vita è cambiata per tutti. Come spiega una studentessa di Medicina che vive in Italia da diversi anni, a Torino: «Ognuno di noi, mi sono resa conto, ha un’esperienza diversa, che dipende tantissimo non solo da chi siamo noi ma anche da come eravamo inseriti nella vita universitaria prima del 7 ottobre 2023. Cambia moltissimo il tipo di università che frequentiamo ma anche il giro di amici, di compagni di studi ha fatto la differenza. Le cose sono cambiate, ma c’è chi riesce ad andare avanti quasi normalmente, e chi invece proprio non viene più all’università».

A Padova a fare la diferenza è anche la sede: «Nella mia città ci sono più scontri che altrove, ma io faccio Veterinaria, la mia facoltà è un po’ lontana e noi qua sentiamo di meno la situazione. Io sono in Italia da otto anni, e ora non ho bisogno di andare a lezione, ho già frequentato tutti i corsi che mi servono per finire, ma i comportamenti ostili ci sono stati: alcuni ragazzi quando sapevano che sarei venuta a lezione cercavano di provocarmi sia fuori dall’aula che in classe. E parlo di ragazzi italiani, cristiani, non sono arabi… per esempio quando si parla di alimentazione, e io faccio Veterinaria, citano la fame che si patisce a Gaza. Poi però ci sono anche gli altri, che li fermano, che dicono che non c’entra nulla. Nel nostro gruppo hanno pubblicato immagini di Hitler, per esempio, cercando poi di dire che era solo uno scherzo. Quando ho risposto che se volevano avrei potuto mandare loro immagini di mia nonna ad Auschwitz, lo shock è stato forte» Ma non sono solo gli studenti, a Padova anche il comportamento di alcuni professori è difficile da accettare: «Durante i tirocini, per esempio, quando sentono che abbiamo un accento e chiedono da dove veniamo, se rispondiamo Israele o rimangono zitti o ti guardano con una faccia un po’ strana. Ci sono tanti studenti israeliani che non parlano più di nulla, che cercano di evitare qualsiasi scontro, ma anche alcuni che addirittura non frequentano più, hanno paura di andare all’università. Nascondere il più possibile di essere israeliani è normale, e tanti dicono che hanno paura. La nostra università poi ha partecipato attivamente nella flotilla, e ci sono tante pubblicazioni delle associazioni degli studenti contro di noi, scrivono che è un peccato Hitler non abbia finito il suo lavoro». Alcuni hannno cercato il sostegno delle istituzioni, e prima ancora che l’esercito entrasse a Gaza sono andati a parlare con la rettrice, spiegano che sapevamo qualcosa sarebbe successo: «Ma la rettrice non è venuta a parlare con noi, ha mandato la sua vice e altri docenti, che hanno detto che avrebbero provano a sostenerci, consigliando però di nascondere la nostra identità. Di non interagire troppo, che avrebbero provato a fermare le manifestazioni contro di noi. Invece hanno lasciato che succedesse di tutto: dagli incrontri pro-pal alle tende in università. E dall’ufficio della rettrice è stata esposta una bandiera palestinese gigantesca, dalla finestra del suo ufficio. Io non ho capito cosa abbia fatto per aiutarci». 

In altre università la situazione è anche peggiore, i ragazzi si conoscono e si tengono aggiornati da una città all’altra: raccontano che a Venezia a uno studente israeliano hanno impedito di consegnare un suo lavoro, mentre a Roma, alla Sapienza, sono arrivati a minacciare una studentessa ebrea, non israeliana, dicendole di non presentarsi a un esame, che non l’avrebbero fatta entrare, che l’avrebbero picchiata. «Ha dovuto farsi accompagnare da uno dei suoi genitori! E a Firenze hanno affrontato degli studenti dicendo che non avrebbero permesso di far loro sostenere gli esami fino a quando il genocidio a Gaza non finirà». A fare la differenza è anche la forza del gruppo: dove gli israeliani sono tanti la situazione è diversa, ma in più di una città la studentessa che si trova a essere l’unica in tutta la sua facoltà ha preferito non rispondere neppure sotto la garanzia dell’anonimato: identificarla sarebbe troppo facile. Un’altra studentessa è più ottimista o forse, spiega, ha trovato un modo per andare avanti: «Studio Medicina, sono in Italia da quattro anni, ma sono più avanti, all’inizio ho frequentato online a causa del covid. Sto frequentando le lezioni, e ho ancora qualche amico in università, qualche amico italiano, o internazionale, intendo che non siano israeliani, e non ebrei: siamo amici da prima della guerra, sanno come la penso e che sono per la pace. Ma ora anche loro frequentano i cortei e mettono cose sui social che fanno male. Capisco da dove viene tutto questo ma da israeliana vedo che le cose sono più complesse, e anche se non sono d’accordo ma ho deciso di non parlarne perchè so che se lo facessi resterei da sola all’università. Ho deciso di separare le cose e continuare ad avere buoni rapporti con loro. Però so che non mi possono capire fino in fondo. Non sono contro di me, non è personale, per quello ho deciso di fare così: io non sono mai stata insultata, non sento pressioni, ma il clima è cambiato per tutti noi. Ho deciso di frequentare ancora, ma ho colleghi israeliani che non vanno più a lezione, per loro è molto più difficile. So che c’è chi ha avuto esperienze molto diverse da me, sono cose che fanno venire i brividi». Nonostante l’esperienza sia per lei meno difficile che per altri le cose sono cambiate parecchio: «Prima della guerra con alcuni dei miei compagni di università palestinesi e libanesi c’erano dei rapporti, ora nessuno mi parla più, anche se io ho sempre detto chiaramente che sono per la pace. Ma sono israeliana, dicono che racconto solo bugie e che noi non possiamo volere la pace. A un certo punto il mio nome è girato e ho avuto paura, ma non è successo nulla per fortuna». Ma la situazione è così pervasiva che la preoccupazione può anche essere ribaltata, come spiega una studentessa, sempre riferendosi alla facoltà di Medicina: «Alcuni professori con cui ho parlato mi hanno detto di volermi aiutare, e che per qualsiasi cosa sono disponibili, ma ho paura di dire il loro nome, non voglio metterli in difficoltà! Mi hanno fatto sentire ascoltata, e capita, e anche quando non avevo nulla di concreto ma solo pensieri e preoccupazioni mi hanno sempre detto che loro ci sono. È stato importante».

A Medicina, a Torino, gli studenti israeliani sono una quarantina, e i rapporti all’inizio si sono consolidati, si sono trovati di più pur avendo idee diverse. Le voci sono concordi: uscire con altri israeliani è più facile, ci si sente capiti. «Ci siamo anche avvicinati di più alla comunità – racconta un’altra studentessa di Medicina a Torino – ci siamo sentiti accolti, e in comunità è un po’ come con gli amici israeliani, universitari e non: capiscono molto di più la complessità, capiscono cosa significa essere israeliani. Anche alla Fondazione Camis De Fonseca sono stati molto accoglienti, e in un momento in cui io non me lo aspettavo ci hanno coinvolto, è stata una sorpresa bella». Purtroppo per gli studenti israeliani in Italia non sono tutte cose belle, anzi: «Nei giorni subito dopo il 7 ottobre l’università non c’è stata, anzi: il 9 ottobre, quando ancora c’erano dei terroristi in Israele, noi avevamo lezione online e molti studenti si sono chiamati “Free Palestine”. Nessun professore ha detto nulla. Avevo un gruppo di amici internazionale, frequento le lezioni in inglese, e nessuno ha mostrato sensibilità neppure allora, molti hanno iniziato ad allontanarsi. Anche fisicamente: quando mi siedo, nell’aula si alzano, si spostano. Ci chiamano terroristi, ci accusano di genocidio. E non possiamo essere amici con chi mette ogni giorno post contro il nostro paese e contro le nostre famiglie. Avevo degli amici libanesi, ho provato a parlare con loro ma non c’è stato modo. Eppure noi siamo più del Paese da cui veniamo, siamo persone. Io non ho rimpianti, amo il mio paese e la mia identità, ma io non ho scelto di nascere in Israele. Come possono odiarmi?». Un’altra voce racconta di lezioni in cui gli argomenti slittano sulla politica internazionale, vengono mostrati video sulla situazione a Gaza, cose che nulla hanno a che fare con gli argomenti del corso mentre lo sguardo del docente si ferma sull’unico studente israeliano, a cercarne la reazione. 

A volte le presentazioni degenerano in discussioni, o addirittura vengono assegnati compiti diversi, mirati, e “casualmente” sono i ragazzi israeliani a doversi occupare di politica anche quando studiano Medicina o Veterinaria. A volte il sostegno arriva inaspettato «I nostri migliori amici sono gli studenti iraniani: da noi sono il gruppo più numeroso, dopo gli italiani, e ci sono vicini. Io sono sempre pronta a cercare di ragionare e far valere le mie idee, ma è molto difficile trovare qualcuno che voglia provare a capire. I miei fratelli, i miei amici sono o sono stati nell’esercito, a Gaza, alcuni sono rimasti feriti anche gravemente. Io so per che cosa stiamo combattendo. All’inizio della guerra non riuscivo a fare nulla, riuscivo solo a piangere, anche a lezione e sì, sono rimasta indietro con l’università. Devo dire però che dipende da me e dalle mie reazioni, non mi hanno impedito di studiare. Ad altri è andata peggio, non riescono neppure a seguire, non frequentano più». L’effetto però c’è, anche sulla vita privata: «Io ho i miei amici, e ci vediamo molto anche tra israeliani. Certo, non andiamo più tanto tutti insieme a mangiare fuori, ma è la mia famiglia qui anche se hanno opinioni diverse. La mia famiglia vorrebbe che io tornassi in Israele, sono preoccupati per la sitazione in Italia, ma io non voglio, qui per me è casa. Però ho capito che prima o poi tornerò in Israele. Voglio poter avere il mio nome sul citofono, non voglio più dovermi nascondere». C’è chi cerca di trovare una spiegazione, una studentessa di Medicina tenta un’analisi : «Voglio credere che i miei compagni di corso che vanno in manifestazione e inneggiano all’intifada non sappiano cosa stanno dicendo. Del resto non hanno un obiettivo chiaro, è difficile trovare lavoro, e se lo si trova non è mai pagato abbastanza, riesco a capire che è difficile avere dei sogni, e forse per stare uniti hanno bisogno di una storia in cui credere… E più di uno mi ha detto, negli anni, che ci invidia, che invidia il nostro essere comunità». Ribaltare la prospettiva è una strategia per ritrovare un senso e la possibilità di andare avanti: «Siamo il popolo ebraico, ci teniamo stretti, è quello che siamo, facciamo così da sempre. La gente sa che noi ci siamo, l’uno per l’altro. Per loro è più difficile, i ragazzi non vedono un futuro nel proprio paese, e hanno bisogno di trovare qualcosa che li unisca, così hanno un obiettivo. Devo cercare di vedere le cose da questo punto di vista anche se è difficile: questa mattina sono uscita con il mio cane ed ero circondata di scritte orribili, devo cercare di credere che non stanno veramente chiedendo la mia morte». 

Ada Treves