NATURA – A Beit Shemesh il museo dello “Zoo Rabbi”
Natan Slifkin non è esattamente il tipo di rabbino che ci si aspetta di incontrare in una sinagoga, per quanto alternativa. Soprannominato Zoo Rabbi, predica tra gabbie e teche con un lemure sulla spalla e una tartaruga che lo osserva. È convinto che gli animali della Torah non siano allegorie spirituali, che comprenderli significhi capire un pezzo di noi stessi. Racconta Simon Rocker sul Jewish Chronicle che da bambino, a Manchester, Slifkin collezionava insetti come altri raccolgono figurine, e sua madre, rassegnata, ha imparato presto a non aprire certi barattoli. Una volta trasferitosi in Israele ha fatto di quella che era una curiosità una vocazione. E, diventato rav, ha deciso che la zoologia e la Torah non dovevano guardarsi in cagnesco. Anzi. Il suo intento è prendere sul serio ciò che i testi nominano di sfuggita: il leone di Yehuda, la colomba di Noè, la capra del deserto, figure che sono state addomesticate fino a renderle simboli innocui ma che un tempo probabilmente facevano paura o suscitavano desideri. Rav Slifkin ricorda che i leoni in Israele c’erano davvero, e che quando i profeti ne parlavano non evocavano metafore: si trattava di un pericolo reale
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L’ebraismo, dice, ha bisogno di riscoprire la concretezza perduta. Il problema, semmai, è che la distanza geografica e storica ci ha resi lettori distratti: gli europei che leggono la Torah immaginano un’oliva come quella del supermercato. Ma il ’kezayit, la misura rituale “grande come un’oliva”, si riferiva a un frutto minuscolo, amaro, ben lontano da quello che oggi posiamo sull’aperitivo. Così, nel tentativo di osservare la legge alla lettera, rischiamo di tradirne lo spirito. E lo Zoo Rabbi si diverte a complicare le storie apparentemente lineari: quando qualcuno lo accusa di “politicizzare la natura” ribalta la prospettiva: è la natura, semmai, a politicizzare noi. Il timo selvatico – lo za’atar – è diventato simbolo identitario, ma la sua raccolta indiscriminata minaccia l’ecosistema. Il fico d’India, il “sabra” assunto come emblema di un popolo, non è autoctono: arrivò dall’America. Nulla è puro, nulla è semplice, e proprio in questo intreccio di errori, importazioni e memorie si costruisce la verità del paesaggio. Non tutti l’hanno presa bene, a dire il vero: i suoi primi libri, che osavano rileggere le fonti rabbiniche alla luce della scienza, sono stati messi all’indice da alcuni ambienti haredì. L’idea che un midrash potesse non coincidere con la zoologia moderna è bastato a scatenare anatemi. Ma rav Slifkin, invece di ritrarsi, ha costruito un museo, letteralmente. A Beit Shemesh ha fondato il Biblical Museum of Natural History, dove scorpioni e cammelli condividono lo spazio con rotoli della Torah e modelli dell’Arca di Noè. Nel suo mondo la Torah non è un documento del passato ma un organismo vivente che respira come gli animali che descrive. «Il giusto conosce l’anima del suo animale» (Mishlè 12:10) è un versetto che rav Slifkin cita spesso, quasi come una sfida: conoscere non è idealizzare, è guardare da vicino, e quando gli chiedono se tutto questo è un modo per rendere la religione più moderna, spiega che non si tratta di modernità ma di onestà. La natura non è una metafora della Torah, né la Torah una guida ecologica ante litteram: sono due linguaggi che si inseguono da millenni, due tentativi di dire la stessa cosa, ossia che la vita, con tutte le sue zampe e scaglie e penne e spine è materia sacra.
(Foto DRosenbach)