FOTOGRAFIA – L’inquietudine di Bellon in mostra al mahJ
La mostra Denise Bellon. Un regard vagabond, in cartellone al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi (mahJ) fino al marzo 2026, riporta alla luce il lavoro di qualcuno che nella fotografia è stata capace di trovare un linguaggio di libertà, più che una professione. Nata a Parigi come Denise Hulmann nel 1902 in una famiglia d’origine alsaziana e tedesca – poi Bellon – negli anni Trenta entra nell’agenzia Alliance-Photo, accanto a Pierre Boucher, Pierre Verger e René Zuber. Fotografa festival, teatri, mercati e, durante l’Occupazione, si sposta a Lione dove lavora sotto pseudonimo. Le immagini di quel periodo corrispondono appieno a quanto aveva dichiarato nel 1978 in un’intervista rilasciata a Le Monde: «Non si fotografa solo per mostrare, ma per ricordare che si è stati testimoni». Una sezione della mostra è dedicata al reportage fatto nel 1945 alla Maison des Éclaireurs Israélites di Moissac, rifugio per bambini ebrei sopravvissuti. L’opera di Bellon diventa racconto civile, senza né enfasi né ostentazioni di maniera. Éric Le Roy – curatore della mostra insieme a Nicolas Feuillie, nel catalogo della mostra scrive che «Le fotografie non cercano il dolore, ma la sopravvivenza». Oltre alle fotografie sono esposte pubblicazioni, lettere e oggetti e il titolo della mostra, Un regard vagabond, bene racconta l’eccezionale diversità del lavoro di Bellon, segnata – come evidenziano i testi critici – da «una forte indipendenza nel mondo della fotografia e una grande curiosità, tanto per l’altrove quanto per l’insolito vicino». Un’altra parte del suo percorso è di ispirazione surrealista: Bellon fotografa le esposizioni del gruppo dal 1938 al 1965, su invito di André Breton. Immagini che restituiscono la relazione con l’oggetto instaurata da chi guarda, non l’oggetto esposto, in scatti che «esplorano la diversità della fotografia senza cercare di dominarla». Nelle sale del museo le fotografie dialogano con riviste, lettere e pellicole, creando un percorso che suggerisce continuità mentre il film Le Souvenir d’un avenir, realizzato nel 2001 dalla figlia, Yannick Bellon, insieme a Chris Marker, risuona come contrappunto: «Ogni immagine è un frammento di memoria, ma anche un inizio di racconto». L’identità ebraica di Bellon, presente senza essere dichiarata, è ricordata con sobrietà, come un dato identitario che le ha donato una facoltà di attenzione particolare, quella dello sguardo che si muove ai margini e tiene insieme luoghi lontani, dall’Europa orientale al Maghreb, da Parigi alla provincia francese, con una stessa misura di curiosità. Il mahJ restituisce così al pubblico non solo un personaggio trascurato dalla storia della fotografia del Novecento, ma un modo di pensare le immagini concreto, mobile e inquieto. Le fotografie di Bellon che non cercano un’effetto, ma restano, colpiscono: il vagabondare del titolo della mostra è una forma di fedeltà allo sguardo.
(Nell’immagine, Denise Bellon, Autoritratto, Parigi, 1934 Tirage moderne, Collezione Eric Le Roy)