ROMA – Da profughi a protagonisti, in memoria di Jakov (Bino) Meghnagi z.l.

Il 7 novembre 2025 è venuto a mancare Jakov Meghnagi, conosciuto da tutti come Bino, una figura centrale nella vita e nella memoria della comunità degli ebrei di Libia.
Lo ricordo sin dall’infanzia con affetto profondo: era un parente di secondo grado, ma soprattutto una presenza morale e umana che ha accompagnato con discrezione e fermezza la nostra storia collettiva.
Era l’emblema di come si può passare da profughi a protagonisti.
La famiglia Meghnagi ha svolto un ruolo fondamentale per la nostra comunità in Libia, in Italia e in Israele. Portatori di cultura, arte, educazione e sionismo, sono sempre stati un riferimento vivo e generoso.
Bino, insieme ai fratelli David, Mino, Isacco, Simone, al compianto Victor (z.l.) e alla sorella Miriam, ha incarnato questo spirito di responsabilità e servizio.
Negli anni difficili dell’esodo, quando fummo costretti a lasciare la Libia senza nulla, fu Bino a muoversi con coraggio e lucidità. Insieme alla Joint (American Jewish Joint Distribution Committee) e alla HIAS (Hebrew Immigrant Aid Society) si impegnò affinché i profughi ebrei provenienti dalla Libia ricevessero sostegno concreto nei paesi di accoglienza.
Grazie al suo intervento, molte famiglie – tra cui la mia – poterono ricominciare con dignità.
Appena arrivato a Roma, Bino si attivò immediatamente con la Joint, ricevette carta bianca e si occupò dell’accoglienza di oltre un migliaio di profughi nei campi di Napoli, Capua e Latina, includendo feriti e malati.
Organizzò la kasherut, predispose spazi adeguati per l’assistenza sanitaria con l’Œuvre de Secours aux Enfants (Ose) e fece in modo che i giovani potessero iscriversi alle scuole ebraiche.
Fu grazie a queste azioni che ottenemmo lo status di rifugiati riconosciuto dall’Unhcr.
Gli ebrei di Libia arrivati in Italia nel 1967 hanno saputo integrarsi, costruire famiglie, studiare, lavorare, diventare medici, imprenditori, professionisti, educatori.
Questa storia, così spesso dimenticata, è anche la storia di Bino: ci ha insegnato a rimboccarci le maniche, a non piangerci addosso, a ripartire da zero con fede, dignità e azione concreta.
Noi siamo stati – e siamo ancora oggi – profughi dimenticati.
Le nostre vicende non compaiono nei corridoi dell’Onu, non hanno trovato spazio nelle risoluzioni internazionali, non esiste un giorno dedicato alla nostra memoria collettiva.
Abbiamo perso case, terre, cimiteri, memorie, radici. Ma non abbiamo perso identità e onore.
E Bino ci ha mostrato come custodirli.
Molti di coloro che arrivarono con venti sterline e nulla più oggi danno lavoro a tante famiglie, contribuendo allo sviluppo delle società in cui vivono, sia sul piano economico che accademico. Questa è una vittoria silenziosa che porta la sua firma.
Negli anni, Bino continuò a occuparsi della kasherut, della cura delle persone bisognose e dell’accoglienza dell’ultima ebrea di Libia, Rina Debash, arrivata a Roma nel 2003.
C’era l ‘esigenza di avere un luogo per pregare con il rito libico e allora che, grazie al suo sostegno e a quello del fondatore Jakov Sion Burbea, nacque a Roma la Sinagoga Bet Yaakov, con il rito libico.
A svolgere le funzioni insieme a Ya’akov Burbea e al figlio Sion, prima della nascita del Tempio di Via Veronese, c’era il fratello David insieme a Isaac e a suo padre Shalom. Poi si inserì Victor. Era allora un seminterrato buio con poca luce che poi divenne una sinagoga con rito libico e alla quale negli anni successivi si è aggiunta accanto un altro tempio con rito italiano, oggi luogo frequentatissimo da giovani, famiglie ed adulti. .
Alla fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, Bino si impegnò insieme ai fratelli nel movimento “Let My People Go”.
Alla fine degli anni Ottanta costituì e presiedette il Comitato di assistenza per i profughi ebrei dall’Unione Sovietica, sensibilizzando le autorità italiane e americane e sostenendo centinaia di persone nel loro reinsediamento.
Nel 1973 sopravvisse a un grave incidente e iniziò una nuova fase della sua vita accanto a Leah, con la quale ebbe Salomon, Benjamin e Rebecca.
Ricordo quando, al Tempio Maggiore, lo vedevo benedire i figli piccoli: un gesto semplice e potente, che porto ancora nel cuore come una lezione sulla trasmissione dell’amore e della fede.
A Simchat Torah di quest’anno incontrai la sorella Miriam al Tempio Maggiore. Mi chiese di pregare per lui mentre tenevo il Sefer Torah tra le braccia. E così ho fatto, pregando intensamente per Jakov Bino ben Emilia. Quel momento, ancora oggi, mi attraversa come una corrente viva. Così voglio ricordarlo: con il Sefer Torah sul petto, con la sua umiltà forte, la sua fermezza, il suo amore per il prossimo, per Israele e per la giustizia.
Lascia la moglie Leah e i figli Salomon, Benjamin e Rebecca.
Che la sua memoria sia di benedizione.

David Gerbi