PENSIERO – Quel filo di libertà che univa rav Sacks a Nathan Sharansky
Cinque anni dopo la sua scomparsa, la voce dell’ex rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth, Jonathan Sacks, continua a risuonare con una limpidezza difficile da ritrovare nel dibattito pubblico. Il suo pensiero rappresenta una forma di resistenza: la convinzione che identità e ascolto non siano in opposizione, ma due poli di una stessa responsabilità. Nel Jewish Chronicle, lo scrittore e attivista israeliano Natan Sharansky – figura simbolo del dissenso nell’ex Unione Sovietica, poi ministro e presidente dell’Agenzia Ebraica – ha scritto che in Sacks c’era «la capacità di spiegarci a noi stessi». È un’immagine che restituisce bene il suo ruolo di interprete e non solo di maestro. Sacks cercava nella tradizione ebraica una grammatica per la convivenza. La sua idea di “alleanza e conversazione” descriveva un modo di abitare la differenza: radicati nella propria storia, ma consapevoli che il senso nasce solo nell’incontro. Sharansky ricorda il giovane rabbino conosciuto a Londra, «radicato nella Torah, ma fluente nel linguaggio della filosofia, della storia e dell’etica», e l’uomo capace di «parlare all’umanità intera». In un episodio emblematico, durante la Seconda Intifada, Sacks lo accolse all’aeroporto dicendo: «Andiamo dritti dall’arcivescovo di Canterbury». Non cercava un confronto politico, ma umano: voleva «parlare di fede, non di politica», e ricordare che la lotta contro l’odio non si vince solo con gli argomenti, ma con la capacità di toccare la coscienza morale. Nel 2024 Sharansky è stato nominato presidente del consiglio consultivo globale della Rabbi Sacks Legacy Foundation, incarico che egli stesso interpreta come l’impegno a «far arrivare in ogni angolo del mondo i suoi insegnamenti senza tempo sull’identità ebraica, sulla responsabilità personale e sulla lotta contro l’antisemitismo». Ex “refusnik” sovietico, incarcerato per la sua attività in difesa della libertà religiosa e liberato nel 1986 grazie a una vasta mobilitazione internazionale, Sharansky incarna la testimonianza della libertà come valore universale. Questo equilibrio attraversa anche le opere che oggi stanno arrivando in traduzione italiana: i cinque volumi di Alleanza e conversazione (edizione Giuntina), il commento di rav Sacks alla Torah. Un tentativo di leggere i testi biblici come mappe per la vita civile, per il pensiero morale, per la costruzione di una società non fondata sull’uniformità ma sulla reciprocità. Allo stesso modo, in Non nel nome di Dio, Sacks interroga la violenza religiosa con una calma che nasce dall’urgenza. Rifiuta ogni riduzione della fede a strumento politico e invita a riconoscere, nel cuore di ogni tradizione, la capacità di autolimitarsi. È una teologia della misura e della responsabilità, che restituisce alla religione la sua funzione critica. Il suo modo di parlare dell’ebraismo non cercava consensi, ma interlocutori. Restava fedele a una forma di ortodossia capace di misurarsi con la modernità, senza nostalgia né semplificazioni. La sua voce ricordava che la Torah è già nel mondo: nella tensione fra libertà e legge, fra memoria e futuro. Per Sacks l’identità ebraica era una prospettiva da cui guardare la complessità. E la complessità una condizione da abitare. Sharansky scrive: «In vita, la sua presenza era eccezionale; in morte, la sua influenza è cresciuta. Le sue idee continuano ad attraversare confini, unendo mondi che troppo spesso si contrappongono: fede e ragione, universalismo e particolarismo, Israele e diaspora». La sua assenza oggi si sente soprattutto nella sfera pubblica, dove il discorso religioso tende o a ritirarsi o a gridare. Sacks rappresentava una terza via: la parola che costruisce, che pensa in profondità senza rinunciare alla chiarezza. Non parlava “a nome” dell’ebraismo, ma “a partire da” esso, mostrando come la fedeltà alle proprie radici possa diventare una forma di apertura. Forse la sua eredità sta qui: nell’idea che il pensiero ebraico, quando è preso sul serio, offre al mondo un metodo. Ascoltare, distinguere, discutere, tenere insieme. Cinque anni dopo, la sua voce è una presenza discreta, che invita a pensare ancora.