SINGAPORE – Cresce l’insicurezza fra gli ebrei
Negli ultimi mesi un senso di insicurezza è cresciuto anche nella comunità ebraica di Singapore: il ministro per gli Affari Interni, Kasiviswanathan Shanmugam, che dal maggio scorso ricopre anche l’incarico di “Coordinating Minister for National Security”, ossia Ministro coordinatore per la sicurezza nazionale, ha denunciato pubblicamente alcuni «incidenti sgradevoli, ostilità sia online che offline» rivolti agli ebrei della città-Stato. Dai graffiti offensivi comparsi in alcune scuole internazionali agli insulti rivolti a un uomo che portava la kippah mentre si recava alla sinagoga di Waterloo Street ed è stata segnalata anche un’aggressione fisica, probabilmente dovuta a un berretto con la bandiera israeliana. Il governo, riporta Channel News Asia, ha riaffermato che nessuno a Singapore deve sentirsi preso di mira per la propria fede e diverse organizzazioni religiose – buddiste, cristiane e musulmane – hanno diffuso dichiarazioni per deplorare gli episodi e richiamare al rispetto della diversità religiosa, un principio su cui la città-Stato costruisce la propria identità pubblica. L’esecutivo nel frattempo ha chiarito che le iniziative legate a Israele non potranno sostenere attività con finalità militari. Tuttavia la percezione di vulnerabilità all’interno di una comunità piccola e ben integrata rimane un segnale non trascurabile. La presenza ebraica a Singapore risale agli inizi dell’Ottocento, i primi ebrei arrivarono nel 1830, in gran parte commercianti provenienti da Baghdad, che seguivano le rotte britanniche nell’Oceano Indiano. Si stabilirono in quello che era allora un porto in espansione, vi costruirono una sinagoga e un cimitero ponendo le basi di una comunità stabile. L’attività mercantile – commercio d’oppio, caffè e legname – li rese figure riconoscibili della colonia e nel 1878 fu inaugurata la Maghain Aboth Synagogue, ancora oggi la più antica del sudest asiatico; nel 1905 sorse poi la Chesed-El, edificata grazie al sostegno di Sir Manasseh Meyer, filantropo e mecenate che segna il passaggio della comunità da gruppo diasporico a presenza strutturata. Durante il periodo coloniale, gli ebrei di Singapore furono parte della borghesia anglofona e cosmopolita che operava tra Calcutta, Hong Kong e Londra. La Seconda guerra mondiale e l’occupazione giapponese segnarono un’interruzione, ma nel dopoguerra la comunità tornò a crescere, arricchendosi di nuovi arrivi da Israele, Stati Uniti, Europa e Australia. Oggi gli ebrei residenti sono circa 2.500: una minoranza articolata, composta da sefarditi di origine baghdadi, ashkenaziti e, più recentemente, da gruppi riformati come la United Hebrew Congregation. Singapore non ha mai conosciuto l’esistenza di ghetti o quartieri ebraici: le sinagoghe, i ristoranti casher e le scuole si trovano nel cuore della città, spesso accanto a templi indù o moschee, una visibilità discreta che ha permesso alla comunità di vivere in relativa armonia. Gli ebrei hanno contribuito alla vita economica e civile del Paese partecipando alla costruzione del modello multietnico promosso dallo Stato, senza rinunciare alle proprie tradizioni religiose e culturali, cui negli ultimi decenni si è aggiunta una riflessione più esplicita sulla memoria. Il Jews of Singapore Museum, inaugurato nel 2021, raccoglie documenti, fotografie e oggetti che raccontano due secoli di storia ebraica locale raccontando una presenza spesso silenziosa ma intrecciata con la formazione stessa della città-Stato.
(Nella foto, un momento della tefillah presso la sinagoga Chesed-El)