SYDNEY – La pedagogia del terrore

Nei giorni del dolore e dello shock per l’attentato di Bondi Beach resta comunque inevitabile e necessario cercare le strade migliori per aiutare i più piccoli. E mentre parlare dell’indicibile ai bambini è purtroppo questione su cui in molti si sono interrogati e non mancano gli studi su cui appoggiarsi, Sonia Brunetti – storica insegnante e poi preside della Scuola ebraica di Torino – prova a interrogarsi su cosa può aver portato gli attentatori di Sydney a compiere insieme un attacco terroristico: «Mi chiedo come sia possibile che un padre insegni al proprio figlio a uccidere, come è successo a Bondi Beach, ma non può esistere una risposta semplice, e forse neppure una che sia anche solo minimamente rassicurante: credo si possa ipotizzare che quando simili convinzioni costituiscono il nucleo profondo del proprio sistema di valori, lo slancio educativo è vissuto come una trasmissione di qualcosa in cui si crede e non c’è neppure più la percezione del male. Ci si trova a insegnare un’idea di morte. E se il riferimento etico è interamente ancorato a un’idea totalizzante di verità, diventa quasi inevitabile essere convinti di insegnare ciò che è giusto e necessario, al limite persino doveroso». Brunetti ipotizza che a un’idea come quella che ha appena espresso si accompagni spesso un elemento di non-dialogo. «Non si tratta di un confronto tra visioni diverse, ma di un’asserzione che dice “la verità è questa”. Una verità che non si discute, non si negozia, non si espone al rischio della confutazione. In questi contesti, il rapporto educativo si struttura come trasmissione verticale in cui il dissenso non è previsto e la discussione è percepita come una minaccia. Temere il confronto significa in pratica temere la possibilità che quella certezza venga desacralizzata, che perda il suo statuto di verità assoluta e altra, posta al di sopra dell’esperienza e della complessità del reale». Non va scordato neppure il contesto, che rappresenta un ulteriore livello educativo e – continua Brunetti – si presenta come un intero milieu che sostiene e rafforza quella verità unica. L’isolamento dal confronto esterno, la chiusura, la paura che l’analisi dei fatti possa incrinare l’impianto dogmatico diventano strumenti di protezione della certezza stessa. In questo schema anche un evento violento viene sottratto all’analisi critica: non lo si prende per ciò che è e non lo si interroga fino in fondo, perché il pensiero deve restare orientato in modo dogmatico a un’idea astratta di bene, che non ammette incrinature». Qualcosa che va nella direzione opposta di quello che avviene nel mondo ebraico, e il pensiero va a quanto ha portato avanti negli anni passati nel mondo della scuola: «Il confronto con il modo in cui si affronta la Shoah è illuminante: il punto non è soltanto ricordare ciò che è accaduto, ma attraversare quell’evento per comprendere il contrario, per interrogarsi sul valore del bene. E non solo, emerge subito il tema della responsabilità individuale, così come il problema del pericolo insito in ogni verità che si dichiara indiscutibile. Non per trovare scappatoie morali, ma per assumere fino in fondo la complessità e la fragilità, dell’educazione umana». L’attacco terroristico antisemita che ha colpito Sydney negli scorsi giorni, poi, ha reso pressante anche quella questione che nessun genitore vorrebbe mai porsi: fino a che punto è possibile preservare l’innocenza dei propri figli in un mondo in cui la violenza estrema irrompe nelle vite quotidiane? La normalità di un evento comunitario si è trasformata in incubo nel giro di pochissimo, e tra le vittime c’è anche una bambina, qualcosa che rende ancora più insostenibile il racconto di quel che è successo. Nel cuore di una simile violenza c’è il paradosso con cui ogni genitore deve fare i conti: dare ai propri figli fiducia e allo stesso tempo sapere che, soprattutto fuori dalle mura di casa, la fragilità della vita non conosce confini. Come si può far capire ai propri figli quanto il mondo può ferire senza trasformare la spiegazione in un atto che li espone a un danno ulteriore? Non è una questione retorica: le ricerche condotte in contesti di minaccia prolungata, dove il pericolo non è episodico ma struttura la vita quotidiana, mostrano che l’effetto primario sul bambino non è tanto determinato dall’evento in sé quanto dalla qualità della mediazione adulta. Come sintetizza Danny Brom, figura di riferimento nella psicotraumatologia israeliana, l’esito emotivo dei bambini dipende in misura decisiva «dal modo in cui gli adulti significativi reagiscono e parlano dell’evento». Non servono né il silenzio assoluto né l’eccesso di cronaca: uno studio condotto su popolazioni scolastiche israeliane esposte a terrorismo osserva che «l’assenza di una narrazione adulta coerente è associata a livelli più alti di sintomi post-traumatici rispetto a una narrazione sobria, limitata e adattata all’età» (Laor et al.). La lezione empirica è semplice e non consolatoria: la forma del racconto conta quanto il contenuto; si può riconoscere la realtà senza consegnare ai bambini immagini o dettagli che eccedono la loro capacità di integrare l’esperienza. Le linee guida cliniche internazionali sono una trasposizione pratica di questo principio, «i bambini traggono beneficio da spiegazioni oneste e semplici, fornite in risposta alle loro domande, non da informazioni anticipate o non richieste», spiegano gli studiosi della American Academy of Child and Adolescent Psychiatry). Un corollario, spesso sottovalutato dal dibattito pubblico, riguarda i media: ricerche sul trauma indiretto mostrano che l’esposizione a immagini violente amplifica una percezione di pericolo persistente che i bambini non sanno collocare nel tempo; come evidenziano studi su esposizioni mediatiche a eventi terroristici, «la ripetizione visiva produce una percezione di pericolo costante che i bambini non sono in grado di relativizzare». Da qui derivano indicazioni concrete: limitare l’accesso ai contenuti audiovisivi crudi, offrire spiegazioni calibrate, e mantenere la routine quotidiana, non come fuga o banalizzazione, ma come dispositivo regolatore che ristabilisce coordinate temporali e corporee. In contesti israeliani gli studi suggeriscono che la ripresa delle attività ordinarie «ristabilisce coordinate che contrastano la sensazione di caos» e funziona più efficacemente delle rassicurazioni verbali isolate. Un ulteriore linea di studio riguarda il ruolo dei caregivers: ricerche su famiglie esposte a un conflitto mostrano che lo stato emotivo dei genitori mediatizza l’impatto sui figli e la letteratura scientifica indica che la sofferenza materna o paterna, se non elaborata e supportata, aumenta la vulnerabilità psicologica dei più piccoli mentre interventi che rafforzano le competenze genitoriali riducono sintomi d’ansia e stress. Sul piano della pratica educativa questo si traduce in una sequenza minimale e ripetibile: ascoltare (verificare cosa il bambino già sa e correggere malintesi), spiegare con frasi essenziali e adatte all’età e limitare l’esposizione a immagini e discussioni sensazionalistiche e ripristinare prevedibilità nella giornata. Come sintetizza con tono clinico ma lucido Ruth Pat-Horenczyk, esperta di stress continuo, «la protezione non coincide con l’ignorare l’evento, ma con l’offrire al bambino una cornice interpretativa che non ecceda le sue capacità cognitive ed emotive». Sono raccomandazioni provenienti da studi e interventi sul campo che hanno misurato esiti psicologici concreti, e trovano riscontro anche nelle linee guida operative di organizzazioni di primo soccorso psicologico. Nel linguaggio del genitore o dell’insegnante la sintesi può essere «ti racconto quello che è successo in modo che tu lo possa capire; quando vuoi ne parliamo ancora; ma stasera faremo le cose di sempre». La funzione di questa frase non è rassicurare a tutti i costi, ma fornire una struttura in cui l’emozione trovi forma e non si cronicizzi come allerta difensiva. Vale ricordare che la letteratura mostra vari profili di risposta: non tutti i bambini esposti al terrorismo o a un conflitto sviluppano disturbi clinici, ovviamente, la variabilità dipende da esposizione diretta, supporto familiare, risorse comunitarie e interventi mirati. Studi che confrontano gruppi esposti e non esposti indicano che il rischio cresce ma non è una sentenza, la differenza la fanno le pratiche di cura e la qualità della mediazione adulta. In una prospettiva che evita i facili appelli, questa è la bussola che emerge dall’evidenza: non un calcolo prudenziale per tenere i bambini nell’ignoranza, ma una politica di parola e presenza che dà loro la misura delle cose senza consegnarli all’immagine traumatica. Le ricerche cliniche di Brom e Pat-Horenczyk sull’esperienza israeliana del post-trauma, gli studi di Laor e colleghi sulle scuole esposte a terrorismo e le linee guida AACAP sul come parlare ai più piccoli di terrorismo e guerra, e le successive analisi sull’effetto dell’esposizione mediatica in contesti di attacco convergono su una indicazione chiara: chi si trova a parlare con i bambini è importante non ceda all’allarmismo e, soprattutto, che non scelga il silenzio.

Ada Treves

(Nell’immagine, il memoriale a Bondi Beach, a Sydney, realizzato dopo la strage di Chanukkah)