Giornata della Cultura – Rav Alfonso Arbib: “Le feste ebraiche: un viaggio nel tempo”

“Su di noi non passa il tempo, noi viaggiamo nel tempo – così diceva Eliahu Dessler, rabbino e grande pensatore ebreo della prima metà del Novecento – In questo viaggio, ogni tanto ci fermiamo ad alcune stazioni. Queste stazioni sono le nostre feste, che ci aiutano a costruire la consapevolezza della differenza tra far passare il tempo e vivere il tempo”.
Si apre con questa suggestiva riflessione la lezione del rabbino capo di Milano Rav Alfonso Arbib(nell’immagine), alla Giornata della Cultura Ebraica 2009, che si propone di spiegare l’essenza profonda che accomuna tutte le ricorrenze ebraiche, al di là delle peculiarità di ciascuna.
“Vorrei partire dalla festività di Pesach, – comincia Rav Arbib – la festa che è conosciuta come quella che ricorda l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto, ma anche la sua schiavitù. Ebbene, questo non è propriamente esatto. Noi celebriamo l’uscita dall’Egitto tutti i giorni dell’anno, più volte al giorno nella preghiera dello Shemà Israel, “Ascolta Israele”. La celebriamo tutti i Sabati, e durante ogni singola festa, perché in ogni singola festa viene messo in luce il legame con la liberazione degli ebrei dall’Egitto, per quanto labile esso sia.”
Rav Arbib, per spiegare questa attenzione dell’ebraismo per l’uscita dall’Egitto, richiama l’interpretazione di un pensatore ebreo del ‘500, il Maharal di Praga.
Egli scrisse che solo dal momento dell’uscita in poi il popolo ebraico conquistò la libertà, e senza libertà non può esistere nient’altro, perché nella schiavitù non ci può essere identità.
“Il Maharal di Praga si è spinto anche oltre – prosegue Rav Arbib – rispondendo a un’obiezione che viene spontaneo sollevare. È vero che dall’Egitto, beit avadìm, casa di schiavi, fummo liberati, ma non si può dire che questa libertà sia stata definitiva. Quante altre persecuzioni, sofferenze, schiavitù, il popolo ebraico ha dovuto subire… La libertà che abbiamo ottenuto con l’uscita dall’Egitto è una libertà più profonda, una libertà dell’essere, che non può essere inficiata dalle perdite di libertà sofferte successivamente durante le diverse contingenze della storia. In Egitto abbiamo corso il rischio di essere schiavi nello spirito, e quindi di scomparire. Dall’uscita dall’Egitto, nessuno invece può più privarci della libertà interiore”.
Rav Arbib ha poi raccontato un Midrash. Quando Abramo comprese che gli dei non esistevano, andò nella bottega del padre Terach, che fabbricava idoli, e distrusse tutte le statue, tranne la più grossa, a cui mise in mano il bastone che aveva adoperato. Quando il padre tornò e incollerito gli domandò cosa avesse combinato, Abramo rispose che la responsabilità non era sua, ma di quel grande idolo, che aveva distrutto tutti gli altri. Il padre non credette alla sua versione neanche per un istante (“Come puoi pensare che io creda che una statua possa aver distrutto le altre?”) e non sapendo come comportarsi, lo portò dal Re. Anche il Re non credette alla storia di Abramo, e quando il ragazzo cercò di approfittarne per convincerli che dunque non potevano credere che un idolo avesse creato il mondo, se non lo ritenevano capace nemmeno di distruggere delle statue, il Re lo interruppe: “Certo tu hai ragione, so benissimo che non è stato lui a creare tutto. Sono io colui che ha creato il mondo, e per questo devo essere adorato”.
“Questo Midrash – conclude Rav Arbib – dimostra come il vero pericolo non sia l’idolatria, a cui evidentemente non credevano davvero nemmeno gli idolatri, ma l’idolatrizzazione dell’uomo. Questo crea la vera mancanza di libertà. Perché l’uomo divinizzato sentirà il bisogno di dominare sugli altri uomini, che dovranno essere suoi sudditi e così perderanno la libertà, proprio come è avvenuto in Egitto. Dove invece si mantiene il timore di D-o, non ci sarà più il rischio di avere paura dell’uomo perché riconoscendo la Sua superiorità non rischieremo di finire in balìa del dominio di qualche altro sovrano. L’uscita dall’Egitto ci ha messo e ci mette al riparo da questo rischio”.
Tuttavia, ha proseguito ancora il rabbino capo di Milano, è molto importante che il ricordo dell’uscita dall’Egitto, sia vissuto in prima persona, come se ciascuno di noi vi avesse preso parte, attraverso un ricordo che va costruito non solo con le parole e il pensiero, ma anche con fatti molto concreti, come mangiare matzà u maror, pane azzimo ed erbe amare.
“Se così non fosse, il ricordo della nostra liberazione, e quindi identità, diventerebbe commemorazione, commemorazione di qualcosa che è accaduto, ma che non esiste più. Questo è un pericolo mortale, da evitare a ogni costo – avverte Rav Arbib – Il modo, comune a tutte le ricorrenze ebraiche per sfuggirgli, è vivere questi momenti con gioia, cosa che il popolo ebraico è sempre riuscito a provare e a esprimere, anche nei suoi momenti più difficili. Pensare di trasmettere la propria storia e identità attraverso il dolore è una scommessa persa in partenza, perché l’istinto naturale dell’uomo è quello di scappare di fronte al dolore, di evitarlo. Vivere le nostre ricorrenze con gioia è la grande forza che ci consente di trasmettere quello che siamo ai nostri figli e di fare sì che il popolo ebraico si mantenga vivo, così che a migliaia di anni di distanza, ognuno di noi sappia apprezzare la libertà, come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto”.

Rossella Tercatin