L'ANALISI, PAGINA PER PAGINA, DEL PROFESSOR ENZO CAMPELLI

Il Covid, il libro complottista
e l’imbarazzata autodifesa di Gratteri  

«Per quanto ‘inatteso’, l’evento pandemico che ha sconvolto il mondo nel 2020 rientra in uno scenario sapientemente teorizzato e ampiamente studiato negli anni passati» (p.84). Da questa premessa, dopo qualche pagine di cronistoria non propriamente imparziale, prende avvio Strage di stato. Le verità nascoste della Covid-19, pubblicato pochi giorni fa, con la prefazione – sorprendente, in verità – di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica (come egli stesso si firma a p. 7). Prima di procedere, il libro pone in esergo un aforisma di Emil Cioran, lo scrittore rumeno dalle simpatie esplicite e dichiarate: «Non c’è alcun uomo politico al mondo che mi ispiri una simpatia e un’ammirazione più grande di Hitler», aveva scritto a suo tempo. E fin qui poco da dire: ciascuno sceglie come preferisce i pensatori a cui ispirarsi.
La tesi del libro sembrerebbe essere quella della enorme quantità di errori, incertezze, sottovalutazioni e inadempienze nella gestione mondiale della pandemia. E chi potrebbe responsabilmente negare questo punto? Errori e inadempienze, peraltro, che il testo specifica con cura. L’allarme? Assolutamente sproporzionato, frutto di una campagna mediatica isterica e terrorizzante (p.210), dagli effetti devastanti (p. 302). Il numero di decessi? Enormemente dilatato dalle diagnosi sommarie e prefabbricate (p.214), tanto che «la matematica sembra essere un’opinione asservita ai padroni della narrazione (p.346). L’informazione? Completamente distorta dalle «narrazioni ufficiali» (p.149) e dai «telegiornali del “pensiero unico”» (p. 133, 149). I tamponi? Inaffidabili (p.245). Le terapie? Sbagliate e ostacolate da censure preconcette (p.289) Il distanziamento? Inutile e dannoso per l’economia (p.236) Le mascherine? Prive di qualunque validità scientifica e al contrario dannose per la salute (p. 253). La quarantena? Sequestro di persona e violazione delle libertà costituzionali (p. 246). Gli esperti? Bè, qui c’è una importante distinzione da fare. Da un lato i «veri» esperti (cioè, neanche a dirlo, quelli che cui affermazioni non contrastano – almeno in apparenza – con le tesi degli autori) e sul fronte avverso tutti gli altri, cioè quelli che non le supportano, che sono immancabilmente virologi da salotto (p.113) sedicenti esperti (p.220), alfieri del pensiero unico (p.259), «giullari» o meno ingenui (p.347) e così via. I vaccini, naturalmente meritano un discorso a parte. Innanzitutto c’è da chiedersi «che senso abbia creare in fretta e furia dei vaccini per un virus che ha una mortalità inferiore allo 0,05%» (p.318) [le morti attribuite al Covid nel mondo sono ad oggi 2.847.182; in Brasile si sono registrati 4.195 decessi per Covid, nella sola giornata di oggi; Ndr], se non per il vantaggio delle aziende che accumulano con i vaccini immense fortune (p.325), tanto più che non vi è alcuna sicurezza sulla loro azione (cap.18). Quanto alla possibilità che il vaccino sia imposto per legge, «Norimberga docet», si legge a p. 82: riferimento per la verità alquanto oscuro, ma il cui significato è destinato, come si vedrà, ad essere ribadito più sinistramente nell’ultima pagina del libro.
Questa, in rapida sintesi, sembrerebbe la tesi, si diceva. Ma non lo è. La tesi di fondo è che «in realtà» non c’è stato nessun errore o incertezza, perché era tutto previsto e voluto. «Nel dispiegarsi della strategia globale del terrore, nulla è stato lasciato al caso» (p.350). «La narrazione ufficiale che abbiamo subito in questi mesi […] è stata costruita da menti sottili che inseguono uno scopo preciso» (p.150). Nulla vi è stato di fortuito nell’accaduto: «nemmeno la disinformazione lo è stata: la confusione e l’incertezza hanno uno scopo preciso»(p.151). Ogni cosa si è svolta secondo le necessità «di chi sta orchestrando questa danse macabre» (p.217). Ciò che è indiscutibile, affermano graniticamente gli autori, è che « il protocollo che soggiace a questa gestione pandemica è stato creato in Cina» e «l’Italia è stata il teatro ideale per la sua prima rappresentazione… piegata l’Italia, piegato il mondo (p.358). Lo scopo di tutto, naturalmente, è la costruzione – strisciante, assoluta, totalitaria – del Nuovo Ordine del Mondo, da parte di un pugno di nemici nascosti e irriducibili. In realtà, come ricorda il testo con le parole di monsignor Carlo Viganò – già nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America (e acerrimo nemico di papa Bergoglio) «ci troviamo nel mezzo di una biblica battaglia tra i Figli della luce e i Figli delle tenebre, una battaglia epocale…»
Dunque, un complotto a livello planetario. La teoria del complotto, della macchinazione occulta ordita da un altro – nemico, malvagio e nascosto – è uno dei luoghi più caratteristici della storia umana. Un gioco facile, che ha il pregio – per così dire – di rimettere e cose a posto: il male ha radici e cause precise che possono essere sempre individuate e scoperte, i «veri responsabili» isolati e denunciati. Una sorta di escatologia semplificata e sinistra, che alimenta la possibilità stravolta di dare immancabilmente «senso» a ciò che accade, sottraendo i fatti al caso, alla processualità storica ed economica, e ad ogni tipo di “necessità” che non sia la volontà perversa di un nemico potente e occulto. Una forma di pensiero primordiale e magico, per cui ogni evento muove da una intenzione specifica di un qualcuno potente, e che divide la complessità di ciò che accade in copioni semplificati all’estremo, fatti soltanto, per l’appunto, di «Figli della luce e i Figli delle tenebre». Una forma di pensiero autistico, non falsificabile dalle obiezioni e dalle critiche, perché ogni argomento in contrario viene immediatamente risucchiato al suo interno: chi nega il complotto lo fa perché è lui stesso parte del complotto, o quanto meno suo servo sciocco. L’atteggiamento complottista, d’altra parte, non è semplicemente la tendenza particolare di certe interpretazioni rispetto ad altre. La sua credibilità dipende in misura fondamentale dal sostrato di pregiudizi e stereotipi di cui si alimenta: è su questa base che le sue generalizzazioni stravolte e paranoidi diventano plausibili. Complottismo e fake news non sono che il riflesso di questo strato oscuro e profondo di odi e timori che attraversano la vita sociale e culturale. Lo scriveva in epoca non sospetta lo storico March Bloch (nelle sue Riflessioni su la Guerra e le false notizie, 1921): una falsa notizia, si legge, è «lo specchio in cui la “coscienza collettiva” contempla i propri lineamenti». Essa si propaga alla condizione di trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole, ed è precisamente da questo – dall’essere rappresentazione visibile del pregiudizio – deriva il pericolo che essi rappresentano.

Enzo Campelli

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L'INTERVENTO DELLA PRESIDENTE UCEI 

"YomHazikaron, cicatrici che portiamo nel cuore"  

Sono 23928 i caduti nelle guerre e nelle azioni di odio e terrore che ricorderemo in occasione di Yom HaZikaron che ci avviamo a celebrare tra poche ore. Tutte le comunità ebraiche italiane saranno raccolte in questo lacerante dolore in memoria del loro sacrificio, dei feriti e delle famiglie strette che, private dei loro cari, vivono il lutto incessantemente.
Le cicatrici di queste guerre e degli attacchi subiti segnano la nostra esistenza e testimoniano, pur con il loro esterno silenzio, il battito di cuore della nostra nazione, dello Stato di Israele.
Oggi lo Stato ebraico con la sua capitale Gerusalemme è scolpito in noi come parte inseparabile delle nostre identità, è un costante punto di riferimento per ogni sfida che avviene “nonostante”. Nonostante l’odio di chi le nega l’esistenza, nonostante le guerre, nonostante le minacce nucleari da remoti nemici, nonostante l’antisemitismo che cresce, nonostante i voti e veti delle organizzazioni internazionali, nonostante le propagande, nonostante il virus, Israele esiste ed è un grande esempio per tutto il mondo.
Capace di avviare nuovi percorsi di pace in Medio Oriente, di dialogo e collaborazione, di crescita culturale, sociale, economica e scientifica, con la Tikvà di vivere in sicurezza, scandendo immancabilmente anno dopo anno i nomi di ciascuno dei caduti.

Noemi Di Segni, Presidente UCEI

L'ANNIVERSARIO DELLA VISITA DI PAPA WOJTYLA AL TEMPIO MAGGIORE DI ROMA 

“13 aprile 1986, un incontro nella Storia”
  

Il 13 aprile del 1986, sulla soglia del Tempio maggiore di Roma, si scriveva la Storia. Per la prima volta dai tempi di Pietro un papa entrava in sinagoga.
All’anniversario dello storico incontro tra Wojtyla e il rav Toaff l’attuale rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni, ha dedicato un intervento apparso quest’oggi sul quotidiano La Repubblica.
In questo contesto il rav si è soffermato anche sul clima in cui maturò la visita: “C’era stato il terrorismo, il papa stesso era scampato a un attentato, i rapporti tra la Chiesa cattolica e il mondo ebraico erano complessi. Dal punto di vista dottrinale le aperture segnate dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 1965 che ‘assolveva’ gli ebrei dalla colpa di deicidio avevano avuto un seguito, con commissioni di esperti al lavoro, cambi nella predicazione e nella formazione dei sacerdoti”. Dal punto di vista politico continuava invece “la freddezza nei confronti dello Stato di Israele, che sarebbe stato riconosciuto dalla Santa Sede solo nel 1993”.
La proposta di un incontro arrivò da parte cattolica. Per rav Toaff, secondo il suo successore, una sorpresa e al tempo stesso una sfida. “Ignorando completamente i suoi colleghi italiani e il rabbinato israeliano, che probabilmente gli avrebbero creato problemi, Toaff cercò e trovò una sponda autorevole nel rabbinato europeo, di cui era esponente. A questo punto – ha scritto rav Di Segni – i problemi divennero quelli organizzativi, diplomatici e mediatici”. Furono i media, il suo pensiero, “i veri interlocutori dell’operazione e i trasmettitori del messaggio: che era quello semplificato dell’abbraccio e della riconciliazione”. Rispetto all’immagine clamorosa dei due rappresentanti religiosi vestiti di bianco e sorridenti che si abbracciavano, ha poi aggiunto il rabbino capo, “le sottigliezze dottrinali, i documenti delle commissioni, le polemiche quasi quotidiane svanivano”.

L'ANNIVERSARIO DELLA VISITA DI PAPA WOJTYLA AL TEMPIO MAGGIORE DI ROMA 

David Limentani, un “cocciaro” come mediatore
  

Grande amico del rav Toaff, ma anche storico fornitore di ceramiche della Santa Sede, l’imprenditore David Limentani (1930-2017) ebbe un ruolo fondamentale nell’organizzazione della visita di Wojtyla al Tempio Maggiore di Roma. Una vicenda ripercorsa con Pagine Ebraiche in occasione dell’uscita del suo libro di memorie Il cocciaro del papa, scritto assieme alla giornalista Laura Costantini.
È “un giorno come un altro” quando dal Vaticano arriva, a sorpresa, una convocazione. Il papa vuole incontrarlo. David crede a uno scherzo del cugino Aldo, reagisce di conseguenza e infatti finisce per farsi chiudere il telefono in faccia. Un altro tentativo avrà miglior esito. L’invito viene quindi accolto e i due, in un clima disteso e cordiale, parlano un po’ di tutto. Poi Wojtyla arriva al punto: “So che lei è amico intimo del rabbino Toaff. Come pensa reagirebbe se esprimessi il desiderio di visitare la sinagoga?”. È la domanda che cambierà il corso degli eventi. David è sorpreso ed emozionato: sarà lui a riferire la proposta al rav e a tenere, nelle settimane successive, i rapporti con la segreteria vaticana.
Rav Toaff, a seguito dell’invito, convoca una teleconferenza internazionale di rabbini. “Non capivo bene cosa si dicessero perché parlavano tutti in ebraico, ma dall’espressione sul volto del rav – racconterà Limentani a Pagine Ebraiche – mi resi conto che era soddisfatto. Quando chiuse la conferenza, tirò un gran sospiro. Dopo soli cinque giorni tornai in Vaticano per dire che sì, rav Toaff aveva accettato”.

ISRAELE E LA CERIMONIA PER IL GIORNO DELL'INDIPENDENZA

Yom HaAtzmaut, lo Shemà dell'infermiere Ibrahim
simbolo di solidarietà e convivenza   

Nel febbraio scorso Maher Ibrahim, infermiere del Centro medico HaEmek di Afula, stava aspettando che la famiglia di uno dei suoi pazienti arrivasse. L'uomo, un signore haredi di 74 anni ricoverato nel reparto Covid dell'ospedale, era peggiorato molto e i parenti erano stati avvisati per potergli dare l'ultimo saluto. A causa di una tempesta, la famiglia era però in ritardo. “Ho iniziato a pensare a cosa avrei potuto fare al posto loro, non come atto simbolico, ma come gesto di rispetto, da persona a persona. E mi è venuto spontaneo: ho recitato lo Shemà Israel”, ha raccontato Ibrahim. E così al capezzale del paziente, Ibrahim, infermiere musulmano, ha recitato la preghiera ebraica. “Ho seguito dei corsi di ebraismo come parte della mia laurea. Non sapevo tutta la preghiera a memoria, ne ho detta metà, ma penso che sia accettabile”, ha raccontato. 
Questa vicenda è diventata in Israele un simbolo positivo di convivenza e un esempio della solidarietà del personale sanitario verso i propri pazienti. E proprio per questo Ibrahim è stato scelto per accendere una delle torce durante la cerimonia ufficiale per il 73° giorno dell'indipendenza di Israele. Lo farà a nome del personale medico.  

ALLA VIGILIA DI YOM HAZIKARON, LE PAROLE DEL PRESIDENTE D'ISRAELE RIVLIN

"Chi ha combattuto per noi
non può essere lasciato solo"

Israele si prepara a celebrare Yom HaZikaron, il giorno scelto per commemorare i militari caduti per difendere la libertà del popolo ebraico e le vittime civili degli attacchi terroristici. Lo fa nel segno di un tragico fatto di cronaca profondamente legato a questa data: la decisione del giovane Itzik Saidian, ventiseienne che ha combattuto nella guerra del 2014 a Gaza e da allora soffre di disturbo da stress post-traumatico, di darsi fuoco. Ricoverato d'urgenza, Saidian è in condizioni critiche. La sua storia è diventata inevitabilmente il simbolo della necessità di dare aiuto a tutti quei soldati e persone segnate dalla guerra e dal terrorismo. “Prego con tutto il cuore per la guarigione di Itzik Saidian. Tra i nostri figli e figlie che sono tornati dal campo di battaglia, ce ne sono molti, troppi, che non sono in grado di fermare la battaglia. Noi vi vediamo. Condividiamo il vostro dolore - le parole del Presidente d'Israele Reuven Rivlin (nell'immagine durante lo scorso Yom HaZikaron) - Anche quando le ferite del corpo guariscono, anche quando il dolore fisico finisce, ci sono persone che tornano costantemente alla battaglia quotidiana della vita”. “Dobbiamo a Itzik, e a tutti gli altri nostri figli che stanno ancora combattendo, l'esistenza dello Stato d'Israele. E noi siamo responsabili del loro futuro”, ha aggiunto Rivlin, riferendosi al giovane soldato e non solo.

IL DOSSIER SCACCHI SU PAGINE EBRAICHE DI APRILE   

Di generazione in generazione,
la scacchiera di Vittorio Foa
  

Non ho mai giocato a scacchi con mio padre, anche se lui deve avermelo proposto, senza insistere però. Ma invece ha giocato a scacchi con lui mio figlio Andrea, soprattutto quando erano in vacanza insieme in montagna e c’era il tempo di farlo. Andrea ricorda che Vittorio giocava volentieri a scacchi, ma non proponeva mai una partita. Dovevi farti avanti e proporglielo, non perché fosse riservato o ritenesse quel gioco una cosa da adulti, ma perché per lui giocare a scacchi non era mai solo giocare a scacchi, ma un momento in cui si parlava di cose serie e in particolare di politica. La politica e gli scacchi avevano per lui un legame molto stretto e nelle mosse dei diversi pezzi, come nelle strategie, rivedeva battaglie sindacali e parlamentari. Quello che si imparava da lui giocando a scacchi è che negli scacchi si ragiona per obiettivi e chi pensa mossa per mossa in genere perde. Per giocare una buona partita, bisogna avere un orizzonte più vasto e trovare il sistema di andare nella direzione giusta con quel che si ha al momento. Le analogie con il sindacato e con la politica erano evidenti. Perdere di vista lo schema generale è il modo più veloce per perdere tutto.
 

Anna Foa, Dossier Scacchi, Pagine Ebraiche Aprile 2021

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LA NUOVA STAGIONE DELLA DOCU-SERIE "PIETRE D'INCIAMPO"   

Gli zii Colombo e la piccola Elena,
nelle pietre nuova Memoria
  

È iniziata la seconda stagione di “Pietre d’inciampo”, docu-serie storica con Annalena Benini, ideata da Simona Ercolani e prodotta da Stand By Me. In sei episodi le vicende di sei famiglie vittime della Shoah e della persecuzione nazifascista in Italia, a cui sono state dedicate altrettante pietre d’inciampo. In onda domani sera alle 21.10 la storia degli ebrei Colombo, arrestati nei pressi di Torino, deportati ad Auschwitz e mai più tornati. Il nipote Fabrizio Rondolino, in questa anticipazione per Pagine Ebraiche, si sofferma sulla vicenda di Elena, di dieci anni e mezzo, che da sola affrontò il viaggio senza ritorno verso il lager. I nazisti l’avevano convinta con l’inganno, dicendole che presto avrebbe riabbracciato i suoi genitori.

La storia di Elena Colombo è pressoché unica nella Shoah italiana. Ha dieci anni e mezzo quando i tedeschi la prendono a Forno Canavese, l’8 dicembre 1943, insieme al papà Sandro e alla mamma Vanda Foa. Trasportati a Torino, i genitori sono incarcerati alle Nuove, poi trasferiti a San Vittore e infine, il 30 gennaio 1944, deportati ad Auschwitz. Vanda è assassinata all’arrivo, la mattina dal 6 febbraio; Sandro, immatricolato con il n. 173417, sopravvive fino al 30 novembre.
Elena invece, per motivi che forse non riusciremo mai a chiarire, viene affidata ad una famiglia amica, dove resta per tre mesi. Il 9 marzo 1944 le SS la trasferiscono al Charitas, un istituto laico che accoglie l’infanzia abbandonata; due settimane dopo, il 25 marzo, la deportano a Fossoli, da dove partirà per Auschwitz il 5 aprile.

Fabrizio Rondolino

(Nell’immagine in alto, Elena Colombo con il padre Sandro) 

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PUNTO DI RIFERIMENTO E MEMORIA STORICA DELLA ROMA EBRAICA   

Giacomo Moscati (1929-2021)  

“Avresti dovuto vedere l’espressione di incredula felicità sui volti della gente: che spettacolo quando la sinagoga è stata riaperta al pubblico e le preghiere di ringraziamento si sono levate nel cielo. Sono stato persino invitato a dare una berachà. Molta gente si fermava e mi ringraziava. Se il Signore mi proteggerà in futuro come ha fatto in passato avrò abbastanza di cui essergli grato”. Molti anni dopo, Charles Aaron Golub avrebbe ricordato con queste parole il giorno più emozionante della sua vita: la riapertura del Tempio Maggiore, il 5 giugno del 1944, nella Roma appena liberata. Fu proprio questo soldato americano a far saltare i sigilli posti dai nazisti, permettendo il ritorno della vita e della speranza. Una giornata indimenticabile che ebbe tra i protagonisti anche Giacomo Moscati, giovane figlio dello shammash del Tempio.

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TRA LE FONDATRICI DEL MOVIMENTO BNE' AKIVA IN ITALIA   

Rossana Caffaz Melichi (1942-2021)

È mancata in questi giorni Rossana Caffaz in Melichi, fiorentina di origine, residente da molti anni in Israele.
È stata, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, tra le fondatrici del movimento Bne’ Akiva in Italia, sotto la guida dello shaliach Aharon Cohen.
Con la promozione e l’organizzazione dei primi campeggi estivi, dei raduni e dei congressi nazionali, fu in quegli anni il fulcro vitale di un ricco tessuto di amicizie, rapporti e discorsi che, allargatosi negli anni, è rimasto fino ad oggi non solo uno dei capisaldi della alyah italiana in Israele, ma soprattutto l’humus vitale sul quale sono germogliati e si sono sviluppati gli episodi più salienti della realtà attuale dell’ebraismo italiano
 

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Impossibile volgere lo sguardo altrove
Non ho mai apprezzato i paragoni con la Shoah e le false analogie e le derivazioni stiracchiate e blasfeme, ma ogni volta che incontro un emigrato, di qualsiasi colore, che ti chiede di pagargli un panino pensi che una traccia del tuo passato ti costringe a fermare il pensiero, e non puoi evitare di scrollarti di dosso il fastidio spontaneo e un po' vergognoso che ti farebbe tirare dritto volgendo lo sguardo altrove. Anche su di te c'è uno sguardo che non si stacca.
Dario Calimani
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Strumenti contro l'antisemitismo
La Jerusalem Declaration on Antisemitism (JDA) definisce l’antisemitismo come “la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei come ebrei (o contro le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)”. 
Questa definizione, avendo lo scopo di influenzare i comportamenti, dovrebbe riempire di contenuti le norme sulle discriminazioni. Essa contiene l’iterazione “in quanto” in chiave restrittiva, rafforzando la critica che la descrive come una caratterizzazione in negativo: dice ciò che non è antisemitismo anziché ciò che lo è. 
Emanuele Calò
Guerra di definizioni
Il 25 marzo scorso è stata resa nota a livello internazionale la Jerusalem Declaration on Antisemitism (JDA), un documento firmato da duecento intellettuali, studiosi, attivisti politici impegnati nella conoscenza dei fenomeni di anti-ebraismo e contemporaneamente nel dibattito sulla politica mediorientale.
David Sorani
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